Quante maggioranze giallo-verdi, che si trasformano d’incanto in maggioranze giallo-rosse dovremo ancora avere, mentre l’Italia sprofonda, sempre più, in una crisi senza fine? Quanti sondaggi dovremo commissionare per sapere in quale direzione evolve la situazione del Paese, seguendo il gregge invece di tentare di guidarlo per sottrarlo all’agguato dei lupi?
Se, alla fine, la pressione degli italiani, con il concorso delle principali piazze occidentali, riuscirà a cambiare l’agenda politica del Paese, sarà un avvenimento senza precedenti. Una sorta di plebiscito, in grado di marcare una svolta di cui l’Italia, da troppo tempo, ha bisogno. Altre volte è capitato nella sua storia. Si pensi alla marcia dei 40 mila, che negli anni ‘80, segnò un cambiamento profondo non solo nelle relazioni sindacali, ma nei rapporti di classe. Come allora si disse. Tra blue e white collar. Tra il fronte riformista e quello comunista.
Anche allora, sullo sfondo, una crisi dalle difficili prospettive. Con la principale azienda italiana, la Fiat, alle prese con una forte caduta del fatturato e dei rendimenti. Con il sindacato interno deciso a non cedere, nemmeno dopo i 35 giorni di picchettaggio che avevano bloccato ogni forma di produzione. Con Enrico Berlinguer, il mitico segretario del Pci di allora, che, di fronte ai cancelli di Mirafiore arringa la folla degli scioperanti, fino a prospettare l’occupazione della fabbrica.
E fuori l’iniziativa spontanea di Luigi Ardisio, un semplice capo reparto, che si riunisce, in assemblea, con un gruppo di colleghi presso la sede del Teatro Nuovo. Al termine della quale, l’idea di un piccolo corteo, per far conoscere alla città di Torino, che, anche all’interno della Fiat, ci poteva essere vita. E un atteggiamento non timoroso dello strapotere sindacale. Un avvenimento imprevisto ed imprevedibile. In poco tempo quel piccolo corteo si trasformò in un fiume di gente – i quarantamila appunto – deciso a manifestare tutta la sua voglia di cambiamento. Iniziavano, così, quegli anni ‘80 che potevano portare l’Italia fuori dalle secche del passato. Ma che si infransero, al termine del decennio, sotto l’assalto di “mani pulite” e la svalutazione della lira.
Eppure quella vicenda fu poca cosa, se paragonata alla reazione che, in questi giorni, ha investito la persona di Mario Draghi, chiedendogli di “non mollare”. C’è l’appello dei sindaci, la raccolta di firme volute da Matteo Renzi, la lettera dei Rettori delle università, la mobilitazione dei corpi intermedi, delle associazioni di vario genere e natura, le manifestazioni di piazza, senza trascurare quel coro di consenso che proviene dall’estero, che tanto fa “rosicare” i suoi miopi detrattori. Mercoledì sarà il momento della verità. Si vedrà se l’Italia e non solo Mario Draghi avrà la forza di lasciarsi alle spalle un passato, che certo non è da rimpiangere.
Ci sono le condizioni? Il quadro rimane incerto, ma se si guarda alle possibili alternative, c’è un pizzico d’ottimismo. I generali del campo avverso, chi più chi meno, sono conosciuti. Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Enrico Letta, solo per citare i maggiori, hanno tutti avuto le loro occasioni. Sono stati sperimentati, seppure con alterne fortune. Performance tutt’altro che esaltanti, almeno a giudicare dal successo ottenuto da due outsider – Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio – alle elezioni del 2018. Il cui MoVimento li ha semplicemente sbaragliati. Facendo leva sui loro numerosi errori.
Che poi, sempre i 5S abbiano dilapidato, nello spazio di una sola legislatura, tutto il capitale accumulato ci può anche stare. Quel difficile passaggio dalla semplice protesta alla proposta non è riuscito. Ci sarebbero volute ben altre qualità. Che ben pochi avevano. Tanto meno Giuseppe Conte, proiettato dal nulla verso una delle plance di comando, Palazzo Chigi, più ostiche da maneggiare. E alla fine la forza delle onde ha nuovamente pareggiato la battigia, cancellando quelle parole d’ordine scritte sulla sabbia. L’interrogativo che rimane è se questi vari personaggi possano essere, in qualche modo, ripescati ed essere preferiti – perché di questo si tratta – a Mario Draghi.
Ne dubitiamo. E non ci si venga a fare la retorica del momento elettorale. Senza una rigenerazione dei partiti politici, oggi del tutto improbabile, il rischio è quello di un loop infinito. Un susseguirsi di formule, come si è già visto in questa legislatura, in cui il collante del potere diventa più forte di qualsiasi vocazione programmatica. Quante maggioranze giallo-verdi, che si trasformano d’incanto in maggioranze giallo-rosse dovremo ancora avere, mentre l’Italia sprofonda, sempre più, in una crisi senza fine? Quanti sondaggi dovremo commissionare per sapere in quale direzione evolve la situazione del Paese, seguendo il gregge invece di tentare di guidarlo per sottrarlo all’agguato dei lupi?
Il normale compimento della legislatura garantisce, forse, che questo non accada? Assolutamente no. Ci dà tuttavia una chance in più. La speranza che quel plebiscito, una volta raggiunto l’obiettivo, non rimanga fine a se stesso. Ma dischiuda una nuova fase, in cui quelle stesse pulsioni profonde, che hanno portato a un mutamento spontaneo del quadro politico, continuino ad operare. Per questo occorre un tempo strettamente necessario, che qualcuno vorrebbe strozzare. Per mantenere in piedi gli stessi riti bizantini, che, in tutti questi lunghi anni, hanno messo piombo nelle ali. E impedito all’Italia di svolgere quel ruolo che, solo oggi, grazie alla presenza di una personalità come Draghi, si riesce ad intravedere a livello internazionale.