Sei anni fa l’inizio del processo di Astana segnò una nuova fase delle relazioni internazionali. Cosa resta del sistema a tre Russia, Turchia, Iran? “Un monito che, alla luce della guerra in Ucraina, avrebbe dovuto far riflettere e che già evidenziava, nel 2016, la crisi dell’attuale sistema internazionale”, secondo Matteo Bressan (Sioi/Lumsa)
Il presidente russo, Vladimir Putin, incontrerà oggi a Teheran i suoi omologhi iraniani e turchi, Ebrahim Raisi e Recep Tayyp Erdogan, nel suo secondo viaggio all’estero dopo l’invasione dell’Ucraina. Oltre alla guerra in Europa, si discuterà del conflitto siriano in corso, e all’ordine del giorno ci saranno anche le questioni relative alle catena di approvvigionamento, in particolare a quello del grano in uscita dall’Ucraina invasa dalla Russia.
Questo formato a tre non è nuovo. Quando nel dicembre 2016 Turchia, Russia e Iran misero in piedi il cosiddetto “Processo di Astana” l’obiettivo era quello di creare un’alternativa — anche narrativa — alle attività che le Nazioni Unite stavano portando avanti in Siria. Eravamo nel pieno della guerra civile contro il sanguinoso regime di Bashar El Assad; ora vincitore del conflitto e in fase di normalizzazione.
Russia e Iran sostenevano Damasco, ufficialmente impegnate in una operazione militare contro il terrorismo. Termine con cui in quel contesto (come in altri) indicavano tutti coloro che si opponevano al regime, creando una confusione nel racconto dei fatti, agganciando questo stesso racconto alla presenza sul suolo siriano di Raqqa, capitale siriana dello Stato islamico — che in quel periodo viveva ancora fasti territoriali e narrativi seguiti all’annuncio del Califfato due anni prima.
Russi e iraniani includevano nei terroristi anche i ribelli siriani, che invece ricevevano sostengo dalla Turchia. I gruppi sunniti che combattevano il regime assadista in Siria nel 2016 erano ancora eterogenei: c’erano formazione jihadiste, ma ce ne erano diverse altre molto meno radicali, e soprattutto i baghdadisti non combattevano Assad — e infatti Iran e Russia hanno solo sporadicamente incrociato il fronte con loro. Ankara sostenga i ribelli per interesse: il rovesciamento del regime assadista avrebbe potuto portare vantaggi alla Turchia soprattutto per quanto riguarda la fascia settentrionale, dove i curdi siriani controllavano (e ancora controllano di fatto) una regione semi-autonoma.
Per la Turchia sono nemici di carattere strategico, perché collegati ai curdi turchi (quelli del fronte combattente del PKK) e diventano potenziali vettori di destabilizzazione interna da sud. Inaccettabile per un sistema di controllo del potere come quello di Erdogan. Essere coinvolto in Siria, per il presidente turco serviva in ultima istanza a un progetto complesso: sostituire il controllo territoriale della fascia che circonda il confine turco dal lato siriano. In parte l’operazione è riuscita, a nord-ovest, dove milizie sunnite fedeli ad Ankara hanno un ruolo privilegiato (sono le stesse milizie che Erdogan ha mosso in Libia o in Nagorno -Karabakh, divietante fedelissime alla causa internazionale turca).
Agganciarsi al flusso russo-iraniano, che sembrava già ai tempi quello che avrebbe vinto la guerra (seppure in modo spietato), serviva alla Turchia per essere parte di un processo e non un attore sconfitto. Inoltre era un modo per mandare un messaggio agli alleati occidentali, che si sono fatti sempre poco coinvolgere nel conflitto siriano, quando invece Ankara lo sentiva parte di una destabilizzazione interna passata anche dal tentato golpe del luglio 2016.
I turchi dicevano che c’è un alternativa alle dinamiche onusiane a guida occidentali: una narrazione che continuano a battere quando cercano di spingere quell’Ankara Consensus con cui costruiscono le relazioni tra le nazioni del Secondo e Terzo mondo. Russia e Iran volevano dimostrare che l’alternativa fatta di Paesi non allineati può essere operativa. Ma cosa resta a distanza di sei anni del processo di Astana?
“Il processo di Astana è un format di diplomazia personale tra i leader di tre paesi che, pur avendo diverse agende di politica internazionale e ambizioni differenti anche rispetto al dossier siriano, hanno saputo portare avanti una road map alternativa a quella della Comunità internazionale, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea in Siria”, risponde Matteo Bressan, docente di Relazioni internazionali per Sioi e Lumsa. “Un monito che, alla luce della guerra in Ucraina, avrebbe dovuto far riflettere e che già evidenziava, nel 2016, la crisi dell’attuale sistema internazionale e l’incapacità di affrontare con gli strumenti tradizionali le sfide emergenti”, aggiunge.
“L’incontro di Teheran – continua – consente alla Russia di mantenere e riaffermare il suo ruolo nel Medio Oriente, con l’Iran e con tutta una serie di paesi rispetto ai quali può utilizzare la leva dell’export di grano come strumento di politica di potenza”.
La Turchia è uno dei Paesi più vulnerabili alle carenze di approvvigionamento derivanti dalla guerra in Ucraina. Situata sulla sponda meridionale del Mar Nero, dipende dalla Russia e dall’Ucraina per oltre l’80% delle sue importazioni di grano ed è un passaggio commerciale fondamentale che collega il granaio europeo all’Africa e al Medio Oriente. La scorsa settimana, Ankara ha annunciato di aver raggiunto un accordo con la Russia, l’Ucraina e le Nazioni Unite per stabilire un corridoio sicuro per le spedizioni alimentari. Le questioni rimanenti dell’accordo saranno probabilmente appianate durante il vertice e, se finalizzate, potrebbero alleviare la pressione su una crisi alimentare globale.
Cosa c’è di quel meccanismo di dialogo tra fronti diversi quanto simili in questo nuovo incontro che si tiene a Teheran? “Il vertice ha molteplici significati, tra questi rappresenta l’occasione, per le tre potenze, per fissare delle zone di influenza in Siria e contenere le direttrici di una possibile e ulteriore offensiva della Turchia nelle zone controllate dalle SDF guidate dalle YPG nel nord della Siria”, risponde il docente: “Un’offensiva che, non più di un mese fa, veniva descritta dal segretario di Stato statunitense [Antony] Blinken come un motivo di instabilità nella regione e che confermerebbe le non poche difficoltà dei rapporti tra Washington e la Turchia nel quadrante di crisi siriano”.
Secondo Bressan, che è anche membro del comitato scientifico della Nato Defense College Foundation, questa è “una costante che, insieme alla leva di pressione diplomatica a disposizione di Erdogan nei confronti dell’adesione della Svezia e la Finlandia all’Alleanza Atlantica, continuerà a rendere Ankara un player decisivo e assertivo in molteplici quadranti di crisi, vedasi Libia, Mediterraneo orientale, Siria e Ucraina”.
Dall’incontro tuttavia emergono anche disallineamenti. Per esempio quelli che riguardano Iran e Turchia sulle questioni idriche nelle aree di confine. Oppure quelle tra Russia e Iran a proposito delle vendite di petrolio: l’abbassamento dei prezzi con cui Mosca spinge le vendite del suo greggio ha tolto quote di mercato all’Iran, con la Cina che ha preferito – per convenienza – il petrolio russo a quello iraniano negli ultimi mesi. Un problema per Teheran, stretta nella morsa delle sanzioni statunitensi reintrodotte da quando l’amministrazione Trump è uscita dall’accordo nucleare Jcpoa.