Dopo mesi di stallo, il Senato americano ha accelerato il passaggio del Chips Act. In attesa delle ultime limature, il pacchetto legislativo sarà a breve pronto per il voto definitivo al Congresso. Il reshoring della manifattura high-tech è questione di leadership tecnologica e sicurezza nazionale…
Si tratta, probabilmente, di una delle misure più ingenti che gli Stati Uniti potrebbero adottare per rinvigorire il settore industriale più strategico di questo secolo. Un’importanza che, tuttavia, non è ancora riuscita a mettere d’accordo democratici e repubblicani, separati da differenze politiche ormai incolmabili e che finiscono per bloccare la macchina burocratica della sicurezza nazionale.
Ma qualcosa sembra smuoversi. Nella giornata di martedì, il Senato ha votato per portare avanti una versione alleggerita del Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors (CHIPS) for America Act. La proposta di legge metterebbe sul piatto circa $52 miliardi di incentivi pubblici per ricostruire la capacità manifatturiera americana, in uno sforzo bipartisan che mette insieme interessi economici, di sicurezza e di leadership tecnologica. La procedura al Senato getta infatti le basi per un rapido voto nei prossimi giorni, affinché il testo venga ritrasmesso alla Camera per il passaggio definitivo e prima di finire sulla scrivania del Presidente Joe Biden.
A febbraio 2022, la Camera aveva approvato una bozza della proposta di legge nella cornice dell’America COMPETES Act, mentre il Senato aveva avallato la stessa misura all’interno dello United States Competition and Innovation Act (USICA) nel giugno del 2021. Due leggi ombrello con significative differenze, a testimonianza della distanza tra democratici e repubblicani. Tuttavia, negli ultimi mesi gli sforzi al Congresso si sono concentrati per sviluppare una legislazione uniforme.
La conversione in legge del CHIPS Act rappresenta, infatti, una delle priorità dell’attuale amministrazione, per affrontare tanto la carenza congiunturale di semiconduttori sul mercato quanto la competizione tecnologica globale, in particolare vis-à-vis con la Cina. La misura andrebbe da un lato a creare condizioni favorevoli per gli investimenti in nuova capacità produttive (foundry e produzione di wafer al silicio) rispetto ai paesi concorrenti, dall’altro a rafforzare gli esistenti punti di forza dell’industria dei semiconduttori americana (design e R&D) con un maggiore coordinamento tra le agenzie federali.
Tra le ragioni che stanno dietro al declino manifatturiero statunitense – dal 37% dello share globale del 1990 al 12% circa attuale – ve ne sono di natura strutturale, legate alla complessità della supply chain in un’ottica di efficientamento e ai cicli economici [grafico]. Le aziende di chip americane come Broadcom, Qualcomm, Nvidia e AMD, grazie ad un forte ecosistema dell’innovazione, hanno progressivamente scalato la catena del valore, entrando nei segmenti a più alto valore aggiunto come il design e i segmenti IP, asset intangibili ma fondamentali per l’industria elettronica e delle telecomunicazioni. Altre, come Cadence Design Systems, Synopsys e Mentor Graphics si sono specializzate nella fornitura di software per l’architettura dei chip (EDA), divenute facilmente oggetto delle restrizioni sugli export attraverso le licenze governative. Il risultato è che l’industria dei chip americana produce poco, ma innova molto, catturando il 39% del valore aggiunto di tutta l’industria globale e perpetuando la sua leadership tecnologica attraverso una maggior spesa in R&D.
Un modello che oggi, in un contesto di irrigidimento geopolitico e di competizione tecnologica, rischia di lasciare troppo campo libero ai rivali (Cina in primis) in quei segmenti della filiera (materiali, attrezzature e fonderie) dove saranno richiesti gli investimenti più massicci per stare al passo della domanda commerciale e, soprattutto, per rimanere sulla frontiera tecnologica. Secondo la SIA, ad oggi l’80% della capacità produttiva è stabilita in Asia, tra Taiwan, Corea del Sud e Cina. Il CHIPS Act vorrebbe proporsi come soluzione in due modi: da un lato, offrire le garanzie fiscali ai principali produttori di chip globali (oltre all’americana Intel che ha lanciato la sua strategia aziendale, IDM 2.0) per riportare sul suolo americano la produzione, tra cui TSMC e Samsung che hanno annunciato piani per espandere le proprie fonderie negli USA. Dall’altra, rafforzare gli strumenti di cooperazione multilaterale per gestire la supply chain con paesi ritenuti “like-minded” e affidabili.
Secondo i dati diffusi dalla World Semiconductor Trade Statistics (WSTS), ripresi dalla SIA, associazione che rappresenta la quasi totalità dell’industria americana, tra maggio 2022 e l’anno precedente si è riscontrato un aumento del 18% delle vendite di chip a livello globale, nonostante le difficoltà di approvvigionamento. “Una domanda sostenuta di semiconduttori” ha commentato John Neuffer, CEO e Presidente della SIA, “richiederà maggior ricerca, design e produzione nei prossimi anni. Richiediamo ai leader a Washington di adottare rapidamente la legislazione bipartisan su innovazione e competitività, per garantire che gran parte di queste attività sui chip avvengano sul suolo americano. Il tempo scorre”.
Non è un caso che Intel abbia posticipato la costruzione di una fonderia, per un investimento complessivo da $20 miliardi, in Ohio e che la stessa TSMC dichiari che le tempistiche della sua facility in Arizona ($12 miliardi) dipendano dalla natura degli sgravi fiscali e incentivi previsti dalla legislazione. Il messaggio è chiaro: se le principali aziende non riterranno profittevole fabbricare semiconduttori negli USA, andranno a farlo altrove. E la lista di governi pronti ad offrire condizioni vantaggiose è molto lunga. Compresa l’Unione europea.
La difficoltà di reggere l’urto di shock esogeni come la pandemia e la carenza di chip man mano che quest’ultimi pervaderanno ogni settore dell’economia (dall’automotive e l’industria ICT, passando per il settore medico fino alla base industriale della difesa) diventa perciò una questione di sicurezza nazionale.
Ad esemplificare il quadro ci ha pensato il senatore repubblicano John Cornyn, del Texas, e tra i principali fautori del testo di legge, in una serie di tweet. “Se gli Stati Uniti perdessero l’accesso ai semiconduttori più avanzati (nessuno dei quali è fabbricato negli USA), il prodotto interno lordo potrebbe ritrarsi del 3.2% perdendo 2,4 milioni di posti di lavoro” ha avvisato. “La perdita di PIL sarebbe 3 volte maggiore ($718 miliardi) rispetto ai $240 miliardi stimati che sono stati perso dagli Stati Uniti nel 2021, per via della carenza attuale di chip”. Uno scenario che potrebbe concretizzarsi, “gettando il paese nella recessione”, se le attività industriali a Taiwan (dove si producono i chip sotto i 5-7 nanometri, essenziali per le tecnologie più all’avanguardia) dovessero cessare. Ne è convinta Gina Raimondo, Segretario del Commercio.
Anche Pat Gelsinger, CEO di Intel, e Jim Farley, amministratore delegato di Ford – il settore automotive, in particolare i veicoli elettrici e autonomi, vedranno aumentare la propria quota nel consumo globale di chip – hanno lanciato l’appello ai leader al Congresso in un articolo sul Wall Street Journal. “Insieme a rilanciare la produzione di chip all’avanguardia, la proposta di legge consentirebbe di livellare il campo da gioco con i competitori globali. Senza un intervento [pubblico n.d.], la carenza di chip, inclusi quelli per le auto, i dispositivi medici e l’industria della difesa, è destinata a persistere in assenza di investimenti negli USA”.
Sulle reali possibilità che l’intervento pubblico possa colmare il gap tecnologico, restano dubbi ben riassunti dal fondatore di TSMC, Morris Chang, intervistato lo scorso aprile dal Taipei Times. Enfatizzando la mancanza di talento e di personale qualificato, Chang è convinto che “gli USA aumenteranno in qualche modo la manifattura domestica di semiconduttori”, ma ciò avverrà “con un aumento dei costi, per unità e in maniera non competitiva sui mercati mondiali quando devi affrontare aziende come TSMC”. Ma è sul destino di Taiwan che si gioca la scommessa. Se Taipei rimanesse uno snodo sicuro della filiera, con solo lo spettro dell’invasione cinese, Chang è convinto che gli sforzi statunitensi siano “un esercizio inutile e dispendioso in futilità”. Ma se scoppiasse una guerra, “allora avremmo molto più di cui preoccuparci dei soli chip”.