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Qualche numero utile sulle pensioni (e cosa non fare)

Le pensioni saranno uno dei principali terreni di scontro della campagna elettorale estiva, lo dimostra la proposta di Berlusconi. Giuliano Cazzola fa qualche conto su chi potrebbe beneficiarne e chi, invece, ne farà le spese

Fin dalle prime battute si è capito che il tema delle pensioni sarà al centro della campagna elettorale, come ciliegina da infilare sulla torta di panna delle agende programmatiche. Già Silvio Berlusconi poche ore dopo la caduta del governo Draghi aveva recuperato una proposta contenuta nel programma del 2018, anche se in quel caso a proposito di aumento delle pensioni minime non era stato indicato l’importo di mille euro, come sembrerebbe avvenire questa volta. Dal canto suo la Lega sta già facendo la corte (in compagnia dei sindacati) ad un altro numero: 41 anni di anzianità, a prescindere dall’età anagrafica, come requisito per il pensionamento. L’insistenza per questo obiettivo ha qualche cosa di fideistico, come se i leghisti dovessero liberare un’altra Gerusalemme, giacché la categoria dei “quarantunisti” fa parte dell’ordinamento da alcuni anni con riguardo alle persone che versano in condizioni di difficoltà nel lavoro o in famiglia; peraltro l’ambito della tutela del lavoro c.d. disagiato che consente l’uso di questa “via d’uscita” è stato tanto allargato da coprire ogni situazione di effettivo bisogno.

Va ricordato che il problema delle pensioni aveva a lungo molestato l’azione del governo Draghi, perché negli incontri con i sindacati questo era divenuto l’argomento più importante. Nella legge di bilancio – dove era necessario affrontare gli effetti della scadenza di quota 100 – il governo se la era cavata con la soluzione transitoria di quota 102 (per tutto l’anno in corso) mentre per la c.d. riforma strutturale proposta dai sindacati (di cui il premier comprendeva perfettamente i guai che avrebbe determinato alla finanza pubblica) Draghi se la era cavata palleggiandola da un incontro a quello successivo.

Anche nelle sue ultime comunicazioni in Senato, il 20 luglio, il presidente del Consiglio aveva illustrato la linea che intendeva seguire sulle pensioni: “Serve una riforma pensioni che garantisca meccanismi di flessibilità in uscita e un impianto sostenibile ancorato al sistema contributivo”. Era quanto il governo aveva lasciato intendere ad ogni incontro con i sindacati: la facoltà di anticipare le pensione è legata all’applicazione del calcolo contributivo per l’intero periodi di attività, anche per quelle parti ora sottoposte al regime retributivo. Si tratta di una ipotesi discutibile – non a caso Draghi aveva scelto la tattica del rinvio – perché scambiava l’anticipo del trattamento con la adeguatezza dell’importo; ma tutto sommato l’impianto non era insostenibile.

A prescindere dalle misure di carattere ordinamentale, durante la campagna elettorale verrà alla ribalta, sotto gli ombrelloni, la proposta dei “mille euro” mensili per 13 mensilità come nuovo livello di pensione minima. È opportuno mettere le mani avanti e indicare i problemi che una soluzione siffatta creerebbe non solo sui conti pubblici e sulla spesa pensionistica, ma anche la destabilizzazione il nuovo minimo determinerebbe sull’intero sistema. Quanto al primo aspetto sono già usciti dei commenti critici con l’indicazione di importi pari a qualche decina di miliardi (si tenga conto – cosa che nessuno sa facendo – che l’inflazione comporta già di per sé, per effetto dei meccanismi di perequazione, una maggiore spesa pensionistica di 24 miliardi).

Prima di sparare delle cifre è opportuno vedere come si articola la proposta: innanzi tutto se si tratta di pensioni (ora inferiori ai mille euro) o di pensionati che percepiscono complessivamente un trattamento inferiore a quell’importo. Premesso che, nel 2022, in base alla rivalutazione annua al costo della vita, la pensione integrata al minimo ammonta (trascurando i decimali) a 524 euro mensili, mentre quelle che godono delle maggiorazioni sociali (l’ex milione di lire del Cav) arrivano a 660 euro, per riconoscere tali trattamenti agli aventi diritto lo Stato trasferisce alla GIAS (la gestione degli interventi assistenziali dell’Inps) oltre 21miliardi ogni anno. Anche se i dati seguenti non sono i più recenti, essi sono in grado di indicare il perimetro sostanziale degli interventi preannunciati, nonché la differenza abissale se si prendessero in considerazioni le pensioni (per ora è questo l’ambito indicato) o i pensionati.

Il numero delle pensioni fino a una volta il minimo (i dati sono del 2018) che sono poco meno di 7,882 milioni, mentre i pensionati sono 2.254.372. Stesso discorso vale per la successiva classe di importo (dal minimo a 1.026,02 euro lordi mensili), a cui appartengono circa 6,858 milioni di prestazioni pensionistiche, ma circa 4,065 milioni di pensionati. Tale fenomeno si spiega perché nel reddito pensionistico spesso si cumulano, in capo a uno stesso individuo (questo vale per il 32,7% dei pensionati), una pensione di importo medio o alto e un secondo o terzo importo di un trattamento basso (quote di pensioni in regime internazionale, pensioni supplementari, indennità di accompagnamento, pensioni complementari, pensioni di reversibilità, ecc.), che quando si sommano e si classificano non più come singola pensione (classi di importo della pensione), ma come pensionato e quindi come classi di reddito pensionistico prodotto del cumulo dei diversi importi. Da qui può cominciare la spiegazione del perché il sistema pensionistico verrebbe sfigurato con l’introduzione di un minimo così elevato. In totale le prestazioni fino a due volte il trattamento minimo (circa mille euro) sono 14,7 milioni, pari al 64,6% delle pensioni in pagamento, mentre i pensionati, per i motivi già esposti, sono circa 6,3 milioni (il 39,4% del totale pensionati). Si tratta quindi di soggetti che nella loro vita attiva hanno versato pochi o zero contributi (e parallelamente poche o nessuna imposta) e che sono a carico della collettività.

A occhio, quindi la nuova proposta del Cav riguarderebbe circa 8 milioni di pensioni al di sotto dei mille euro oppure più di due milioni di pensionati. Ovviamente questi dati andrebbero aggiornati al momento della eventuale legge, anche in relazione ai requisiti previsti; ma le grandezze non cambierebbero di peso. Ciò detto quale interesse avrebbero i contribuenti a tenere comportamenti regolari e corretti se lo Stato gli garantisse comunque un importo della pensione pari a più del 60% di quelle in pagamento (guadagnate con l’effettivo lavoro)? Tanti straparlano di separazione dell’assistenza dalla previdenza come se fosse l’uovo di Colombo per risolvere gli squilibri finanziari del sistema. Con le proposte circolanti si rovescerebbe il problema: il sistema pensionistico finirebbe per passare ancora di più a carico del bilancio dello Stato e ad assumere quindi connotati assistenziali. Del resto è in atto un processo che va in quella direzione.

Quando il governo (Draghi lo ha confermato anche nell’ultimo incontro con i sindacati) riduce il cuneo fiscalizzando la contribuzione sociale, non si limita ad essere – come accade da decenni – il finanziatore di una parte crescente della spesa, ma lo diventa sempre più anche sul versante delle entrate.

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