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Voti e veti. Alle radici del caos italiano

Negare l’influenza russa e le ingerenze cinesi sulla politica italiana significa negare la realtà. Ma il caos istituzionale e politico che aleggia nei palazzi romani ha radici più profonde. Il commento di Francesco Sisci

Il sistema politico italiano nasce alla fine della seconda guerra mondiale con pesi e contrappesi per evitare che la vecchia forza dei fascisti e la nuova forza dei comunisti prendano il potere.

Oltre alle misure formali c’erano poi misure informali che cementano la situazione – un veto culturale/politico a allearsi con fascisti e comunisti portandoli al governo. Poi, i partiti di destra e di sinistra erano esclusi dal governo con un accordo informale, e il Paese era governato da un centro massiccio e magmatico, che ruotava attorno alla Democrazia Cristiana (DC).

Con il partito comunista più forte dell’Occidente, dalla fine degli anni ‘60 l’Italia divenne un campo di battaglia informale della guerra fredda. Il terrorismo rosso e nero minacciava la stabilità del paese. Questo culminò con il rapimento e l’assassinio nel 1978 del politico più potente del paese, il leader della Dc Aldo Moro.

Dopo il rapimento di Moro, negli anni ’80, il governo attuò una serie di misure che avrebbero dovuto diminuire lo scontento sociale e eliminare le basi in cui pescava il terrorismo. Roma distribuì soldi a pioggia raddoppiando il deficit di bilancio dello stato.

La distribuzione di benefici sociali effettivamente contribuì a drenare il Paese dalla protesta sociale. Una simile politica era stata usata agli inizi degli anni ‘60, sempre per limitare le proteste sociali. Allora il deficit venne prosciugato in negli anni ‘70 in poco tempo attraverso un’inflazione a due cifre e rigorose misure di bilancio.

Forse il governo italiano pensava di ricorrere all’inflazione e a una grande disciplina di bilancio per riportare i conti in ordine negli anni ‘90. In realtà la fine della guerra fredda nel 1989 è connessa con la fine di fatto di tutti i parametri politici ed economici che avevano retto l’Italia fino a quel momento.

Con la crisi del 1994 le colonne del sistema politico italiano, la DC, il PSI e i partiti minori, crollarono e vennero invece sdoganato i comunisti del PCI. La stessa cosa non accadde completamente per gli eredi del partito fascista, nonostante che anch’essi avevano cambiato nome.

D’altro canto emersero forze politiche nuove, con agende diverse, che raccolsero parti delle eredità passate ma con pulsioni nuove, Forza Italia di Silvio Berlusconi e la Lega di Umberto Bossi. Inoltre l’Italia si accordò per entrare nella moneta unica europea, l’euro. Infine ci fu una riforma elettorale, che avrebbe dovuto dare maggiore governabilità al paese. Tutto ciò avvenne però senza cambiare la Costituzione, pensata invece per affrontare sfide politiche diverse, che a quel punto non esistevano più.

Si creò quindi un insieme di vincoli esterni, con l’Unione europea, e fragilità interne, la mancanza di partiti di continuità di governo ed un mix di paletti istituzionali vecchi, e partiti nuovi. In questo magma nei fatti nessun partito ha avuto la forza politica di affrontare radicalmente il deficit di bilancio e le arretratezze dello stato sociale e burocratico italiano.

Quindi siamo ad oggi. La combinazione di un rapporto debito/Pil arrivato al 150% e tante restrizioni nella libertà di mercato del paese sono un freno enorme per lo sviluppo nazionale. Ci sono rendite di posizione, ciascuna comprensibile e giustificabile che però messe insieme paralizzano il paese.

I monopoli dei piccoli imprenditori sulle spiagge, i tassisti, ma anche i farmacisti, i giornalisti eccetera ciascuno ha una sua ragione, ma tutti insieme paralizzano il Paese. In una situazione di confusione e debolezza strutturale estrema, con un’astensione crescente dal voto, nel 2018 arrivano al potere gli M5s.

Essi non diventano in realtà una forza di governo, ma con la loro insipienza aumentano la enorme confusione nazionale. In tale frangente, nel mezzo del Covid arriva il governo di Mario Draghi l’anno scorso senza passare da un voto popolare. Ciò è possibile perché l’Italia ha appunto un sistema di pesi e contrappesi, e la democrazia è indiretta: il premier è tale non se votato dagli elettori ma se votato dal parlamento. Giusto o meno, occorre una riforma costituzionale per cambiare il sistema.

Intanto in questi trent’anni l’ex Pci ha cambiato nome, ha assorbito parte della ex Dc, e come la Dc di una volta è diventato un partito/sistema, parte dell’amministrazione dello Stato, garantisce la governabilità del Paese. Tale governabilità è minima, e per alcuni è un problema perché non affronta i problemi di fondo accumulati in questi tre decenni. Intanto negli ultimi anni è tornata anche la guerra fredda e la pericolosa influenza di Mosca in Italia.

In tale contesto dire che Mosca ha fatto cadere il governo Draghi significa attribuire un grande successo politico alla Russia. D’altro canto negare l’influenza russa nella politica italiana significa negare la realtà.

Così comincia ad allargarsi un nuovo veto informale politico in Italia su Mosca. Oggi Giorgia Meloni, secondo i sondaggi leader del maggiore partito dopo le elezioni, si muove quindi fra due veti, uno vecchio ma mai del tutto eliminato, quello di essere “neo fascista”, e uno nuovo, non suo ma dei suoi alleati, quello di essere filorussi. È un passaggio molto difficile, al di là del numero dei voti raccolti alle urne. Per governare in ciascun Paese contano sia i voti che i veti.

Quindi, con la guerra in Ucraina aperta, con una Italia che chiaramente traballa, con la Russia che si vanta a torto o a ragione di avere fatto cadere il premier inglese, avere tagliato le gambe al presidente francese facendo eleggere una maggioranza parlamentare contraria, con una Germania in stato di confusione, gli Usa mandano la speaker del Congresso Nancy Pelosi a Taiwan irritando la Cina.

Da Pechino tutto questo non si capisce. La Cina ha un animo estremamente pratico. Se la Russia perde militarmente in Ucraina e politicamente in Europa Pechino si spaventa e forse potrebbe cominciare a cambiare. Se viceversa la Russia vince su questi due fronti allora la Cina seguirà la Russia. La concordanza tra partita Ucraina e partita cinese deve essere anche chiara a Washington visto che il segretario per la sicurezza nazionale ha recentemente spiegato che vincere la Russia significa rassicurare Taiwan.

Certo la politica americana non è un leviatano onnisciente, è fatta di mille rivoli, tendenze e controtendenze che devono trovare continuamente una mediazione, ma oggettivamente in queste condizioni internazionali e senza un obiettivo preciso da perseguire il viaggio della Pelosi a Taiwan rischia di creare confusione non solo in Asia ma anche in Europa, e in Ucraina.

Sarebbe meglio piuttosto concentrarsi sulla guerra e sulla stabilizzazione politica in alcuni paesi europei, per dare un messaggio importante alla Cina ma anche in Europa, e in Ucraina. Del resto durante la prima Guerra fredda la guerra di Corea e la lunga guerra in Indocina prima dei francesi e poi degli americani avevano un effetto politico diretto e importante anche nelle vicende europee.

Oggi le vicende e le guerre europee possono essere fondamentali per le questioni asiatiche. Viceversa, muoversi in maniera scoordinata tra est e ovest dà a Pechino un messaggio di confusione oppure di complotti invisibili da parte americana. Entrambi sono segnali pericolosi. La domanda quindi oggi sarebbe cosa può fare la Pelosi in Italia per aiutare Taiwan? Per certi versi la questione cinese si vede anche in Italia.La Meloni oggi candidato premier in pectore ha anche l’onere e l’onore di rispondere a tale questione.



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