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Nel campo minato del Kosovo, attenti ai passi falsi. Parla il gen. Tricarico

terrorismo

Le tensioni tra le popolazioni serbe e kossovare rischiano di produrre degli effetti a catena con impatti anche sulla delicata situazione internazionale. La Nato deve evitare passi falsi e cercare una mediazione. L’intervista al generale Tricarico

Il Kosovo è una regione dove le tensioni non si sono mai sopite del tutto, e dove i rischi di escalation sono dietro l’angolo. In uno scenario incerto come quello attuale, caratterizzato dalla guerra in Ucraina, la possibilità di fare un passo falso è alta. Per questo la Nato dovrebbe ricordarsi del suo articolo 1, che le impone di cercare una soluzione pacifica alle controversie, per evitare di andare incontro a ulteriori aumenti della tensione. L’intervista di Airpress al generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare che tra gli altri incarichi, è anche stato comandante operativo delle Forze aeree italiane partecipanti al conflitto nei Balcani nel 1999, nonché vice comandante di tutta la forza multinazionale impiegata nel conflitto.

Generale, rispetto alle tensioni degli ultimi giorni, qual è al momento la situazione sul campo?

Questi incidenti sono rimasti, almeno fino ad oggi, localizzati e abbastanza ricorrenti, anche se non frequenti. Tuttavia, le mine vaganti nell’area restano più d’una. Oggi abbiamo questa delle targhe, che si sviluppa, tra l’altro, sullo sfondo di una zona particolarmente critica, quella del ponte sul fiume Ibar, che divide le due comunità serba e kosovara nella stessa città di Mitrovica. Il ponte è stato oggetto di tensioni in più occasioni e che, infatti, è presidiato costantemente dai nostri Carabinieri. Un altro possibile motivo di escalation è quello del monastero di Dečani, un antico edificio sacro ortodosso in territorio kosovaro che richiede anch’esso il presidio costante delle unità di Kfor, perché altrimenti sarebbe oggetto sistematico di atti ostili. Tutto questo sottolinea quanto il Paese, dal 1999 ad oggi, resti un campo minato, e i passi falsi che potrebbero essere commessi sono molteplici.

Che differenze ci sono oggi?

Quello che differenzia gli ultimi eventi dai passati, che abbiamo detto essere ricorrenti, è lo sfondo internazionale nel quale si collocano, caratterizzato dalla guerra in Ucraina. Non sono tempi ordinari. Inoltre, sappiamo benissimo che i serbi godono dell’appoggio di Mosca, così come il Kosovo, in quanto luogo dove si svolge un’operazione Nato, si sente altrettanto a suo agio con l’Alleanza Atlantica alle sue spalle. Ecco, dunque, che ci ritroviamo nella stessa contrapposizione Nato-Russia. E questa tensione potrebbe fare riscontro con la guerra in Ucraina. Così come potrebbe avere un’eco anche in altre regioni dove questa contrapposizione si sta strutturando, come uno sciame sismico che segue al terremoto primario. La Russia, del resto, sta cercando di allargare la propria penetrazione in diverse regioni dalla Siria del nord, all’Iraq settentrionale, dalla Libia, al Mali. Oggi più che ieri, dunque, tutto è rischioso, e queste criticità hanno sempre come sfondo questa tensione tra Occidente e Russia.

La differenza con altre aree, però, è che in Kosovo la Nato è già presente…

Questo potrebbe essere un elemento assolutamente dirimente, e del resto io non vedo come la Nato si potrebbe tirare indietro rispetto alla necessità di un eventuale intervento in Kosovo. L’Alleanza Atlantica è presente nel Paese con la missione Kfor. Poco meno di quattromila militari, ma ciò non di meno una presenza consolidata, che opera tra l’altro sotto gli auspici delle Nazioni Unite, a seguito della risoluzione 1244 del giugno 1999. La missione in sé è stata istituita proprio per implementare quanto previsto dalla risoluzione, e in particolare garantire una sostanziale autonomia al Kosovo dalla Serbia, che rimane comunque un territorio conteso. Dunque la Nato c’è, e nel momento in cui la situazione dovesse deteriorarsi la Nato non potrebbe sottrarsi dal dovere di intervenire e ristabilire le condizioni di pace. C’è poi c’è da dire che la Serbia non ha la bomba atomica, non ce l’aveva nel ’99 e nulla è cambiato. Tuttavia, bisogna valutare anche le conseguenze sulla situazione esistente in Ucraina, e secondo me i due contesti non possono essere trattati separatamente. Per questo bisogna essere molto cauti. È un’area delicata, lo sarebbe in qualunque momento, ma in questo preciso momento storico non c’è dubbio che potrebbe essere un elemento deflagratore

In che modo si potrebbe evitare un’ulteriore escalation?

Per prima cosa, ritengo che sia necessario fare un richiamo fondamentale a quanto sancito dall’articolo 1 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che fino ad adesso è stato letteralmente calpestato. L’articolo stabilisce che i Paesi membri della Nato devono cercare di comporre con mezzi pacifici le controversie internazionali nelle quali potrebbero essere coinvolti. Ecco, per il teatro serbo-kosovaro il richiamerei il rispetto di questo concetto fondante del nostro vivere insieme all’interno dell’Alleanza Atlantica. Quindi guai a promuovere un’escalation dopo aver esibito muscoli come successo in Ucraina, dove non c’è stata un’escalation: ci sono state le esibizioni di forza, le minacce, le esortazioni all’Ucraina, gli aiuti, ma mai nessuno che abbia fatto richiamo all’articolo 1 del Patto. Quello che potrebbe succedere è che la Nato rafforzi la propria presenza in maniera evidente, con delle forze che non lascino dubbi sulle proprie intenzioni, e che quindi possano provocare un deterioramento della situazione anziché una sua composizione.

L’Italia è presente in prima linea in Kosovo, fornendo tra l’altro il contingente più numeroso di Kfor. In questo senso, il nostro Paese dovrebbe giocare un ruolo di mediatore?

Assolutamente sì, o meglio, dovrebbe, se non avesse un governo azzoppato. Questa potrebbe essere una delle prime occasioni per pentirsi per aver mandato via il governo Draghi. Con che voce, con che peso, infatti, oggi l’Italia potrebbe ergersi a mediatore, a pacificatore. In un contesto dove, per diversi motivi, il nostro Paese è interessato direttamente in prima battuta più che altri membri europei o della Nato.



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