In queste settimane convulse che ci porteranno al voto anticipato del 25 settembre vedremo falli a ripetizione. Dobbiamo augurarci che arbitri e guardalinee (e soprattutto i notai delle Istituzioni) non sbaglino troppo e procedano a sanzionare gli errori. E qualche errore si comincia a vedere, senza provocare orrori nemmeno nei più autorevoli osservatori. L’opinione di Antonio Mastrapasqua
Byron Moreno ammise di avere sbagliato, diciassette anni dopo: “Il fallo su Zambrotta era da espulsione”. Non era l’unico episodio che l’arbitro ecuadoriano si vide contestare durante gli ottavi di finale tra Italia e Corea del Sud. Ma nessuno si ricorda l’autore del fallo. Tutti quello del fischietto che non fischiava.
I falli non sono patologie del gioco. La mancata sanzione dell’arbitro, invece, è un elemento che falsa la contesa. Oddio, anche l’arbitro può sbagliare, ma in certi casi l’arbitraggio dovrebbe somigliare più alla certificazione notarile, che non può prevedere errori. In queste settimane convulse che ci porteranno al voto anticipato del 25 settembre vedremo falli a ripetizione. Dobbiamo augurarci che arbitri e guardalinee (e soprattutto i notai delle Istituzioni) non sbaglino troppo e procedano a sanzionare gli errori.
E qualche errore si comincia a vedere, senza provocare orrori nemmeno nei più autorevoli osservatori. Tra i più marchiani emerge – anche senza sanzioni e senza condanne mediatiche – la mutazione genetica della compagine governativa. Attenzione, i ministri sono sempre gli stessi, ma molti non rappresentano più le forze politiche che hanno costituito il grande patto che diede vita al governo Draghi. Tra ministri con portafoglio e senza il M5S aveva indicato 5 ministri (se anche Roberto Cingolani fosse attribuibile politicamente): D’Incà, Dadone, Patuanelli, Di Maio. Tra questi oggi solo Patuanelli – pur contestando il vincolo del secondo mandato – ha dichiarato fedeltà a Conte e quindi al M5S, che si ritrova quindi con una compagine ministeriale ridotta al lumicino.
Forse ancora più clamoroso il caso di Forza Italia. Contava tre ministri – senza portafoglio – come compenso politico al sostegno della maggioranza. Oggi non ne ha più nemmeno uno. Gelmini e Carfagna hanno trovato una casa politica con Calenda. Brunetta sembra mantenere la sua algida solitudine. Lui ministro per sé stesso – e non più ministro di Forza Italia – si è collocato tra quei “migliori” che non avevano bisogno di credenziali politiche. Di fatto tutti e tre sono entrati al governo su indicazione di Forza Italia, ma pur essendo usciti dal partito hanno mantenuto il ruolo e le deleghe. Di certo non rappresentano più Forza Italia al governo. E nel governo chi rappresenta Di Maio? Certamente non più il M5S. Ne è uscito, senza uscire dalla lista dei ministri in carica.
Le dimissioni di un ministro sono quasi sempre affidate alla sensibilità dell’interessato. E alla moral suasion che il Capo dello Stato sa e vuole esercitare. Le deleghe no, sono materia di redistribuzione possibile e di ritiro da parte del capo del governo (soprattutto se si tratta di ministri senza portafoglio).
Quindi se la resistenza al poltronismo degli ex M5S non dovesse calare dovremmo rassegnarci ad avere un governo di fatto diverso da quello che si insediò nel febbraio del 2021. Un governo con gli stessi ministri, nel quale molti di questi ministri “politici” si sono accasati in case politiche diverse. Trasformismo politicamente lecito, non c’è che dire, ma istituzionalmente inaccettabile. Non è stato sempre così. Dal caso di Josefa Idem nel governo Letta al caso di Maurizio Lupi nel governo Renzi scattarono le dimissioni con sostituzione di politici della stessa parte del dimissionario.
Non è normale assistere a queste giravolte senza sentire il fischio dell’arbitro o senza vedere la sbandierata del guardalinee. I parlamentari non hanno vincolo di mandato, ma i vertici amministrativi (ministri, viceministri e sottosegretari) sono figli della legittima lottizzazione. O dovremmo credere che Di Maio o Carfagna sono da considerarsi “Migliori” come Cartabia e Draghi?
L’incoerenza politica è il fallo di gioco, le mancate dimissioni (e la mancata richiesta di dimissioni) sono il fischio dell’arbitro che nessuno ha sentito. Ma nemmeno la stampa – il cane da guardia della democrazia? – ha abbaiato. Piaggeria? Omologazione? Di certo si è aperto un vulnus tutt’altro che irrilevante. I ministri che hanno lasciato i partiti di provenienza continueranno a governare, senza poter contare su un mandato politico obbligatorio in ogni governo di coalizione, specie in uno che nasce come governo di unità nazionale, nel quale ogni forza politica aveva legittimamente indicato i propri referenti.
È diverso fare campagna elettorale nel ruolo di ministro, piuttosto che in quello di ex. E nessuno ha nulla da obiettare? Nessuno intende fischiare? Sono convinto che se ci trovassimo nel caso contrario – ministri che scelgono Forza Italia, abbandonando il Pd per fare un esempio – avremmo assistito a critiche roventi sui media. E avremmo sentito un fischio forte e prolungato. Quello che è mancato in questi giorni.