I partiti che hanno esposto i propri programmi e si stanno impegnando in veri tour de force per convincere un elettorato disilluso e disincantato della bontà dei loro propositi. Ma attenzione a cosa si può fare e cosa invece è destinato a rimanere nel libro dei sogni. L’analisi di Salvatore Zecchini
Il Paese sta entrando nel vivo della campagna elettorale con i partiti che hanno esposto i propri programmi e si stanno impegnando in veri tour de force per convincere un elettorato disilluso e disincantato della bontà dei loro propositi e di come si prenderanno cura delle esigenze dei cittadini, in quanto individui, famiglie, imprese e comunità nazionale nel suo insieme. La fatica è immane per tanti motivi, non ultimo il periodo estivo vacanziero, ma soprattutto per dover convincere gli indecisi ed i delusi, che rappresentano una rilevante fetta dell’elettorato e al momento del voto con tutta probabilità decidono di astenersi. La loro incidenza a un mese dalle votazioni ha raggiunto il 40% circa, secondo i sondaggi, ed appare in linea con la tendenza affermatasi da più di quaranta anni.
L’astensionismo è aumentato continuamente dalla fine degli anni 70, arrivando a raggiungere alle “politiche” del 2018 il 27% degli elettori, ma alle recenti comunali è salito al 43%, una dimensione tale da mettere in dubbio la rappresentatività degli eletti come espressione del sentire della popolazione. Disillusione, scarsa fiducia nel mondo politico e nelle istituzioni, disinteresse se non è in gioco un rilevante vantaggio o svantaggio per il votante, l’appartenenza agli strati sociali meno abbienti e anche l’insufficiente livello d’istruzione, che rende difficile comprendere l’importanza della scelta di una politica piuttosto che di un’altra, sono tutti fattori che incidono.
In alcuni elettori prevale la considerazione che qual che sia il loro voto e la forza politica sostenuta ben poco cambierà nella conduzione del Paese. Vi è anche una componente regionale: nel Mezzogiorno, area peraltro a reddito pro-capite meno elevato che al Centro e al Nord, l’astensionismo risulta relativamente più intenso. La sfiducia nei partiti politici ha un peso rilevante. Da un’indagine di Eurobarometer per le istituzioni europee, condotta tra marzo e aprile dell’anno in corso, risulta che il 63% degli italiani ritiene che la corruzione (ovvero, tangenti ed abusi di potere) sia diffusa tra i partiti politici, una percentuale superiore alla media europea (58%).
Istat va oltre nella sua indagine per esplorare il grado di fiducia dei cittadini nella classe politica e nel Parlamento. In un sondaggio pubblicato recentemente rileva che soltanto un quinto dei cittadini nutre fiducia nei partiti politici, il livello più basso tra le istituzioni del Paese, con poco meno di un quarto che esprime sfiducia. Va meglio per il Parlamento, in cui confida il 39,3% degli intervistati, percentuale nondimeno inferiore a quella dei fiduciosi nel Parlamento Europeo (41,6%).
Contribuiscono alla fiducia nei partiti diversi fattori, tra cui vanno annoverati i programmi elettorali e la loro realizzazione una volta al governo. L’ascesa dell’astensionismo può essere vista anche come la risposta dell’elettorato alla mancanza di accountability dei partiti o degli uomini politici rispetto agli impegni presi con i loro programmi elettorali. Oppure può essere il risultato della considerazione che al di là dei programmi le coalizioni di governo comporteranno compromessi col risultato che l’attuazione dei programmi elettorali risulterà limitata. Pertanto, si vota per il partito ideologicamente preferito (e non per il programma), oppure non si vota affatto.
La letteratura internazionale sul grado di responsabilizzazione degli eletti (accountability) verso gli elettori e la possibile reazione di questi ultimi al mancato adempimento delle promesse elettorali è numerosa e le verifiche empiriche condotte con i dati di alcuni paesi suffragano le tesi sulla diversa capacità degli elettori di condizionare l’operato politico degli eletti. Le generalizzazioni di queste tesi, tuttavia, non sono possibili, perché la validità delle verifiche empiriche è limitata al particolare contesto sociopolitico esistente nel paese su cui si dispone di dati adeguati.
Per l’Italia, da un’indagine di Ipsos del 25 luglio scorso risulta che solo il 18% degli intervistati sceglie il partito per il programma che propone, laddove la quota maggiore, che peraltro non supera il 23%, basa la sua scelta sulla capacità mostrata dal partito nel curarsi dei problemi reali della gente. Seguono con quote molto prossime alla prima la fede nel partito di appartenenza (22%), il grado di onestà mostrato (21%) e la fiducia che ispira (19%). L’attenzione a curare l’interesse collettivo rileva solo per una parte minore dei partecipanti al sondaggio, il 16%, segno di una caratteristica storica degli italiani nell’anteporre all’interesse generale del Paese, in quanto tale, quelli del particolare, sia esso l’individuo, la famiglia, il partito, o il gruppo d’appartenenza.
Ad ogni modo, come valutare i programmi dei principali raggruppamenti politici? Colpiscono, innanzitutto, la verbosità, la reiterazione di propositi già visti in precedenti tornate elettorali, lo sbandierare grandi impegni di promozione dell’occupazione, di espansione dell’economia, di tutela dei diritti dei cittadini, di riforma senza entrare nei dettagli, salvo precisare poche proposte puntuali su cui attrarre l’attenzione e il sostegno degli elettori. In maggioranza non si indicano gli strumenti da usare, i costi, i tempi di attuazione e la fattibilità stessa delle proposte, né quali vincoli sono da superare.
Se si dovessero attuare tutte le promesse fatte, occorrerebbe più di un decennio di interventi e cambiamenti, una consistente disponibilità di risorse non vincolate a obblighi preesistenti e una straordinaria capacità del Parlamento e della Pubblica Amministrazione di portarli a compimento. Quindi i programmi presentati hanno il sapore di libro dei sogni o meglio delle aspirazioni, che solo in piccola parte si potranno realizzare.
I temi economici sono in primo piano nei programmi dei tre principali raggruppamenti politici, benché declinati in modo differente quanto alle misure e alle priorità, ma sempre viste in rapporto all’attuazione del Pnrr che rimane come programma base, seppure passibile di aggiustamenti. Le proposte chiave per l’economia ruotano attorno a fisco, lavoro ed impresa, transizione ecologica ed infrastrutture.
Sul fisco lo spettro delle misure va da un estremo di riduzione della pressione fiscale su imprese e famiglie all’altro estremo di incremento dei prelievi sui redditi e sulla spesa.
In Italia la pressione del fisco è in ascesa negli ultimi anni e si colloca tra le più elevate nell’Ue e sopra la media europea (43,5% contro 41,9% area euro senza Italia). Un ulteriore aggravamento, benché con finalità ridistributive a favore dei percettori di redditi medi e bassi e verso i meno abbienti, trascura completamente l’attuale notevole spostamento del carico fiscale su un gruppo minoritario di contribuenti dalla relativamente maggiore capacità fiscale.
Non si considera, in particolare, né l’impatto di questo sbilanciamento, né la difficoltà di individuare il gruppo da favorire se si fa riferimento, come avviene, ai redditi e beni accertati. In specie, il sistema impositivo italiano è composto anche da un’intricata trama di esenzioni, detrazioni d’imposta, deduzioni, franchigie, privilegi, addizionali, diritti d’imposta, contributi figurativi sul lavoro, patrimoniali e tasse locali, trama che, insieme all’evasione fiscale, fa sensibilmente divergere la distribuzione effettiva del carico fiscale rispetto a quella risultante dalle fonti ufficiali.
Si dimentica anche che l’effetto ridistributivo attualmente è ottenuto anche manovrando la leva della spesa pubblica, del welfare, e delle prestazioni in natura. Il reddito di cittadinanza, la pensione di cittadinanza, gli svariati bonus accordati a singoli gruppi, oltre ad avere effetti distorsivi sulla propensione al lavoro e sugli equilibri nel mercato del lavoro, prospetta un quadro dei beneficiari parzialmente differente da quello dei meno abbienti derivabile dalle analisi della povertà o dalle dichiarazioni dei redditi. Sono altresì misure che contrastano con l’obiettivo di promuovere una società attiva, mentre ne alimentano una di “inattivi”, particolarmente nefasta in un periodo di declino demografico.
Un ulteriore incremento della tassazione, inoltre, si ripercuote negativamente sulla redditività degli investimenti e sulla propensione a investire delle imprese, che sta a fondamento della crescita e dell’avanzamento della produttività. Le misure a favore dell’occupazione sono una costante di tutti i programmi, spaziando tra incentivi, assunzioni massicce nel settore pubblico, temporanee esenzioni contributive per le nuove assunzioni ed integrazioni al reddito da lavoro. Si mostra molto interesse per l’introduzione del salario minimo, che tuttavia interessa solo una frangia di lavoratori, posto che nei contratti collettivi sono già definiti i minimi contrattuali da rispettare.
La riduzione del cuneo contributivo è un’altra misura ricorrente, ma in un programma si arriva a legarlo all’assorbimento di occupazione da parte dell’impresa, senza considerare che intensificando il rapporto lavoro/capitale si disincentiva l’investimento in nuove tecnologie e si favorisce un modello di produzione obsoleto. Non si parla, invece, del problema della carenza di competenze, che frena lo sviluppo delle imprese, del modo di potenziare la formazione, della ristrutturazione del salario per ampliare la quota legata alla produttività, di differenziare le retribuzioni in relazione alle competenze, né delle rigidità nell’impiego del lavoro. Gli interventi per il lavoro sono pertanto impostati in chiave di welfare e non di rilancio della produttività e del merito.
L’impresa e il rinnovo del sistema produttivo trova spazio nel programma di una sola formazione politica, inquadrato nel contesto della politica industriale e della crescita dimensionale dell’impresa. Il riferimento cardine è al piano Industria 4.0 e a quello Transizione 4.0. Altre forze sottovalutano il tema, lo ridimensionano nell’ambito della transizione ecologica, come se questa potesse essere il principale motore della crescita dell’economia nei prossimi anni. Si dimentica che le economie avanzate si trovano nel mezzo di una grande rivoluzione industriale guidata dalle nuove tecnologie, che hanno iniziato a sovvertire modelli di R&S, produzione, approccio al mercato, concorrenza, e competitività. Tacere su questi aspetti denuncia un vuoto di politiche e di strategia, che può costare caro allo sviluppo del Paese. Sull’avanzamento della concorrenza solo un programma ne parla e ne sollecita il completamento secondo le direttrici del Pnrr.
Le misure per la transizione ecologica e il settore dell’energia sono affrontate in tutti i programmi, ma nella loro maggioranza sono considerate in chiave di welfare, di bonus e sollievo dei costi per famiglie ed imprese colpite dai notevoli rincari, misure queste di breve effetto ma utili per raccogliere consensi. Soltanto un programma prospetta un insieme di interventi di politica industriale, che toccano al tempo stesso il raggiungimento dell’autonomia dalle forniture della Russia, il nuovo nucleare, l’efficienza energetica, l’espansione delle rinnovabili, la riduzione delle emissioni di CO2, e l’efficientamento del sistema dei trasporti di merci e di persone.
Il sorvolare di altri su questo tema di assetto dei sistemi energetico ed ambientale può essere segnale di incertezze e contrasti all’interno dei raggruppamenti politici, oppure di assenza di una visione sistemica da tradurre in piano d’intervento. Il tema si interseca con quello del potenziamento delle infrastrutture, ma qui il riferimento è a quanto già previsto dal Pnrr e a quanto richiesto per ottenere un miglior funzionamento dei mercati energetici ed ambientali.
Grandi assenti nei programmi sono alcuni temi di cruciale importanza. In particolare, si nota l’assenza di indicazioni sul problema dell’eccesso di spesa pubblica e la necessità di un suo contenimento, sul reperimento delle entrate necessarie a coprire tutte le elargizioni promesse, sul modo di riportare il debito pubblico su posizioni sostenibili, evitando di continuare a essere ostaggio dei mercati finanziari e delle istituzioni comunitarie, sul sostegno della competitività delle produzioni italiane, e sulla promozione del rinnovamento tecnologico e dell’imprenditoria.
L’attenzione è, invece, concentrata sul lato della domanda, sul sostegno ai redditi e sulla spesa, piuttosto che sul lato dell’offerta, del sistema produttivo, del riposizionamento del lavoro nel quadro delle nuove tecnologie. Forse si crede che la spinta alla domanda stimolerà gli investimenti e non rifluirà a vantaggio delle importazioni, ovvero dei produttori esteri, come già avvenuto.
Di fronte a queste scelte è confortante che l’unico ancoraggio sicuro sia dato dal vincolo posto dall’attuazione del Pnrr e dalla sorveglianza europea sulla sua completa e puntuale esecuzione.