Secondo l’esperto dell’Atlantic Council, la Libia è in mano a milizie che vanno isolate, perché ormai pensano solo a potere e guadagni, e hanno abbandonato l’interesse per il Paese e per i suoi cittadini
Stando ai dati del ministero della Sanità del Governo di unità nazionale, sono 39 i morti e oltre 150 i feriti dell’ultimo round di scontri tra miliziani affiliati all’esecutivo tripolino – guidato da Abdelhamid Dabaiba, sfiduciato dal Parlamento – e quelli che invece sono fedeli a Fathi Bashaga. Quest’ultimo, che mesi fa ha ricevuto la fiducia dalla Camera dei Rappresentanti (che lavora da Tobruk, dove si è autoesiliata nel 2014), ha nuovamente tentato un blitz per cercare di entrare a Tripoli, ma è stato respinto.
Il Paese è in stallo istituzionale da mesi (per non dire da anni). Nessuno dei gruppi di potere ha forza sufficiente per ottenere vantaggi e quello che si sta creando è una lotta tra clan che potrebbero portare verso una deriva incontrollabile, spiega Karim Mezran, direttore della North Africa Initiative del Rafik Hariri Center dell’Atlantic Council di Washington.
“Quello che serve – continua Mezran in una conversazione con Formiche.net – è un cambio totale di approccio da parte della Comunità internazionale. Non è più possibile considerare certe figure libiche come interlocutori legittimi, ma vanno ormai considerati come capi gang, che agiscono soltanto in funzione di potere e denaro”.
Mezran spiega che non esistono più gli idealisti e i politici che, per quanto su posizioni e visioni divergenti, lottavano per il popolo, per l’interesse del Paese: “Ormai certi politicanti vivono per i loro interessi e quelli di un ristretto gruppo che li circonda”.
L’ultimo ciclo di scontri è stato segnato dai combattimenti violenti, anche all’interno della capitale, tra le forze riconducibili a Haitem Tajouri e a Osama Juweili (vicini a Bashaga) e le milizie legate a Abedlghani Al Kikli, Ewad Trebelsi e la Rada Force (vicine a Dabaiba).
Da oltre un decennio, queste figure, che sono state parte della rivoluzione contro il regime Gheddafi, segnano ancora le dinamiche libiche. Ma quanta rappresentanza, quanto consenso reale hanno nel Paese? “Faccio una domanda per dare un’immagine: che consenso aveva Totò Riina in Sicilia? Rappresentava i siciliani? Certi centri di potere si mantengono in piedi grazie a interessi, prepotenze e violenze, ripartizione di prebende per costruire influenze ed equilibri”, risponde Mezran.
La gestione della partita libica all’interno è stata spesso orientata al mantenere di contatti tra certe figure, al muovere equilibri in funzione di accontentare alcune roccaforti, che spesso però finiva per scontentarne altre. Da anni la Comunità internazionale cerca di ricomporre il frammentato quadro libico, di costruire stabilità, di promuovere iniziative di distensione. I risultati dei processi e di questi sforzi, che sono stati tutti guidati dalle Nazioni Unite, stentano ad arrivare.
“In Libia l’Onu è la prima istituzione a essere in difficoltà: è screditato anche agli occhi dei libici, che in realtà sono sempre più sfiduciati in senso generale, perché anche le forme di società civile libera sono ormai obliterate dal peso delle varie bande miliziane presenti”, spiega l’esperto statunitense. “Il problema dell’Onu – continua – è che ha cercato di impostare il processo sulle elezioni, ma era chiaro a tutti che fosse una forzatura, perché mancavano le condizioni di sicurezza, stabilità e socio-politiche, per il voto”.
E dunque, cosa fare adesso? “Il primo elemento è una presa d’atto: la realtà è che non si può avere uno stato criminale e destabilizzato in mezzo al Mediterraneo. Preso coscienza di questo, va tolto il potere a coloro che ormai non sono più i legittimi rappresentanti del popolo libico. Una volta isolati, si devono superare gli schemi come quelli delle conferenze di Berlino, perché questa presa d’atto deve essere totale”.
Per Mezran serve un “lavoro radicale, che però parte dal togliere qualsiasi genere di appoggio o legittimazione a certe figure per disincrostarle dal sistema di potere, che in Libia sta bloccando qualsiasi forma di sviluppo del Paese”.