La coincidenza della visita del leader cinese e del papa in Kazakistan offre l’occasione per una riflessione sul valore delle libertà religiose. È possibile che per la Cina di Xi sia arrivato il momento di accogliere Francesco e partire da lì per costruire un percorso di riconoscimento delle libertà religiose?
Nel primo viaggio all’estero di Xi Jinping in quasi 1.000 giorni, il leader cinese arriva in Kazakistan partendo da una Cina ancora bloccata da Covid, o meglio dalla politica “Zero Covid” pensata dal Partito/Stato anche per diffondere una narrazione di estrema rigidità e attenzione sulla diffusione pandemica (che invece potrebbero aver avuto origini da disattenzioni e negligenze nella provincia di Wuhan).
Non solo, Xi esce dal suo Paese col peso di una situazione economica non eccellente – la crescita procede più lentamente del previsto. Di più: sulle spalle sente anche gravare il report sullo Xinjiang, quello in cui le Nazioni Unite hanno dichiarato che la Cina ha commesso “gravi violazioni dei diritti umani” contro gli uiguri e altri musulmani turchi, compresi i kazaki., e che ha suscitato indignazione.
La Cina cerca di promuovere un ordine mondiale diverso anche attraverso operazioni multilaterali come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco) – al cui meeting in Uzbekistan, a Samarcanda, Xi sarà presente per incontrare altri leader mondiali. Ma si trova anche a fare i conti con quello che viene definito friendshoring, ovvero lo spostamento delle catene di approvvigionamento e della produzione verso lidi più amichevoli.
Xi avrebbe effettivamente bisogno di un rilancio internazionale, che potrebbe per assurdo trovare in un clamoroso incontro con Papa Francesco, anch’egli in Kazakistan per un viaggio apostolico che lo ha portato a Nur Sultan per il Congresso dei Leader delle Religioni mondiali e tradizionali.
Non è probabile che il pontefice e Xi si incontrino, ma la sovrapposizione delle due figure leader di due mondi differenti ha portato a speculazioni e rumors a proposito di un futuro, storico faccia a faccia. “Sono sempre aperto ad andare in Cina”, ha detto Francesco aggiungendo ironicamente di non essere informato su eventuali incontri con Xi in suolo kazako. Al di là dei più fantasiosi retroscena, la prossimità geografica non è da sé ragione per un meeting adesso (e d’altronde i due si sono già trovati nella stessa città nel 2015 a New York, in occasione dell’Assemblea Generale dell’Onu, e nel 2019 quando Xi visitò Roma e il governo Conte I).
Il Vaticano ha una partita aperta con la Cina: l’accordo del 2018 sulla nomina dei vescovi, che dovrebbe garantire al Papa un potere di veto sui candidati scelti da Pechino, è stato rinnovato nel 2020 e il papa ha espressamente auspicato un ulteriore rinnovo per altri due anni – passaggio che dovrebbe esserci ad ottobre, portando l’intesa verso il 2024.
Ora il punto è che se Xi vuole imprimere un passo maggiormente accattivante al suo ipotetico ordine mondiale, allora dovrà anche cercare di arrivare a intese in cui far retrocedere il Partito/Stato davanti alla concessione di alcune libertà (sembra un ossimoro). Mentre finora il patto sociale con i suoi cittadini si basa sulla compressione di alcune di quelle libertà a vantaggio di un aumento costante della prosperità, adesso il quadro sta cambiando.
Ma è chiaro che determinate concessioni (non solo quelle collegate all’accordo col Vaticano chiaramente) possano essere rischiose per il regime di Pechino, che potrebbe aprirsi e perdere presa. Allo stesso modo però, il modello che attualmente il Partito Comunista Cinese sta proponendo soffre della mancanza delle libertà sociali, economiche e religiose. Le stesse che a livello globale hanno creato le condizioni per l’ascesa al potere della Cina. E dunque, negando queste libertà, la Cina sta ostacolando le sue possibilità in futuro.
Senza libertà, l’innovazione è soffocata e la competitività diminuisce. E se queste compressioni liberali possono essere allettanti per sistemi chiusi – che siano il Kazakistan o l’Uzbekistan, la Russia o l’Iran che sta lavorando per entrare nell’Sco – altrove sono semplicemente insostenibili. Anche perché crescono alternative ibride e articolate a quell’alternativa offerta dalla Cina. L’India per esempio, che propone un modello più libero e ricco di speranza, sta attirando un grande afflusso di investimenti da parte delle imprese asiatiche come occidentali (e forse non è un caso).
È sotto questo quadro che il dialogo interreligioso a cui partecipa Francesco passa (per coincidenza?) come un messaggio diretto nei confronti della Cina. L’offerta della libertà religiosa è un condizione cruciale nelle libertà individuali (il credo è tra le più intime di queste). L’auspicio che circola in Vaticano è che l’accordo del 2018 possa non solo essere rinnovato, ma – magari con l’effetto scenico di una visita del Pontefice a Pechino – essere implementato aprendo a un miglioramento delle condizioni di vita dei cattolici in Cina.
Negli ultimi anni, sotto Xi, la Cina ha avviato un giro di vite sul cristianesimo, nell’ambito di una stretta generale sulle libertà religiose che ha colpito anche i fedeli dell’Islam – riscontrata in quel report Onu sullo Xinjiang – e, in misura minore, del buddismo e del taoismo.
Per decine di milioni di cinesi cattolici hanno praticato per decenni il loro culto in “chiese domestiche” informali e la loro presenza era tollerata. Ma la spinta di Xi a “sinicizzare” la religione e a dare il controllo finale al Partito Comunista piuttosto che a un leader religioso ha portato le chiese informali a subire forti pressioni per la chiusura. I fedeli cristiani hanno visto le loro chiese saccheggiate e hanno dovuto affrontare interrogatori e sorveglianza, e la polizia ha arrestato pastori e sacerdoti associati a queste chiese.