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Se a Putin restano solo tre opzioni (anzi una). Scrive il prof. Bozzo

Dopo la controffensiva ucraina il leader russo può: tentare il dialogo con Kiev; lanciare una controffensiva su larga scala; aumentare gli attacchi di rappresaglia, già sui civili. Ma nel breve periodo soltanto l’ultima è praticabile. Luciano Bozzo, professore di Relazioni internazionali e studi strategici dell’Università di Firenze, spiega perché

È presto per valutare portata e conseguenze della doppia offensiva ucraina lanciata sia nel settore nord-occidentale del fronte, a Ovest del fiume Oskil, e che ha consentito la riconquista dell’importante snodo di Izyum, sia a Sud, verso Kherson, nella sacca russa sulla riva occidentale del fiume Dnipro.

Le informazioni e analisi più attendibili tra quelle disponibili consentono tuttavia di trarre già adesso alcune conclusioni. Le forze ucraine hanno sin qui presumibilmente riconquistato circa 3.000 chilometri quadrati del territorio nazionale perduto nei mesi scorsi. In termini relativi, tenuto presente che durante la guerra i russi hanno occupato circa il 20% dell’Ucraina, Paese di oltre 600.000 chilometri, ma inclusa la Crimea occupata dal 2014, il dato non è eclatante.

Il rovescio militare russo a Nord è stato tuttavia forte e repentino, trasformandosi in rotta, con la perdita e più spesso l’abbandono di quantità notevoli di mezzi di ogni tipo. Altrettanto grave, come è stato più volte ricordato in questi ultimi giorni, è stata la perdita di territori e centri chiave ai fini del sostegno logistico delle forze di Mosca. Così come oggettivamente molto difficile appare la situazione delle truppe russe nella sacca di Kherson, i cui rifornimenti avvengono attraverso il fiume Dnipro sul quale non esistono più ponti. Si susseguono inoltre, in parallelo rispetto all’azione diretta ucraina, notizie di attacchi partigiani o di operazioni speciali a danno di funzionari che collaborano con gli occupanti, a Mariupol, Kherson e nel Donbass.

Last but not least, il successo ucraino si traduce, come sempre in casi simili, in un effetto morale positivo per l’attaccante e in uno uguale e contrario per chi l’offensiva la subisce. Tutto ciò fa di quest’ultima quel punto di svolta a favore dell’Ucraina che in effetti più analisti attendevano, non a caso, per la fine di agosto.

Ma l’offensiva, come inevitabile, è in esaurimento. I russi tentano di consolidare una linea difensiva tra Svatove e il fiume Oskil, mentre resistono di fronte a Kherson. Qui giunti si tratta di vedere, da un lato, se gli ucraini avranno forze sufficienti per consolidare il controllo e tenere i territori conquistati nonostante l’allungamento delle proprie linee di operazione; dall’altro se i russi riusciranno far affluire riserve per tentare di passare ad almeno parziali azioni controffensive.

Il presidente russo Vladimir Putin ha tre opzioni. Prendere atto dei costi ormai eccezionalmente alti e delle crescenti difficoltà dell’“operazione militare speciale” e tentare un vero dialogo con Kiev. Tralasciando le dichiarazioni propagandistiche dei giorni scorsi è assai dubbio che voglia e comunque possa farlo e questo per almeno tre motivi. Per il momento l’iniziativa è in mano agli ucraini, tra le cui più ottimistiche speranze si affaccia quella di recuperare persino territori persi dal 2014, non esclusa la Crimea; la proposta di un dialogo sancirebbe l’enorme perdita di prestigio patita dalle forze armate e dalla Federazione, rendendola irrecuperabile; nelle condizioni attuali qualsivoglia risultato di un eventuale negoziato non compenserebbe di fronte all’opinione pubblica e all’élite politica russa i costi della guerra, quelli già pagati e i futuri.

La seconda opzione è lanciare una controffensiva su larga scala. La storia, tuttavia, insegna che quando un Paese subisce un rovescio militare delle dimensioni di quello che si delinea in Ucraina esistono solo due modi per recuperare l’iniziativa: con uomini e mezzi propri o grazie all’intervento di uno o più alleati. Il Cremlino non pare in grado di reagire con le proprie forze. Questo, a prescindere dall’arrivo della brutta stagione che inevitabilmente ostacolerà le operazioni, per tre ragioni maggiori: per ragioni di politica interna finora è stata esclusa la mobilitazione generale e non sembra imminente un mutamento di linea; in ogni caso troppo lunghi sarebbero i tempi e troppo rilevanti i mezzi necessari all’addestramento ed equipaggiamento di nuove unità efficienti, visto che sono state duramente colpite alcune delle migliori unità schierate nel settore nord del fronte; infine, le sanzioni incidono drasticamente sulla capacità produttiva del complesso militare industriale russo. Resta aperta l’ipotesi di un deciso e decisivo intervento esterno. Il vertice della Shanghai Cooperation Organisation di Samarcanda ha però nuovamente confermato la prudenza del leader cinese Xi Jinping, grande ed “eterno” alleato di Putin, attento a non rimanere intrappolato nel conflitto in atto e ben contento di tenere centrati sull’Ucraina attenzioni e sforzi di Stati Uniti e NATO. Come non bastasse nella conferenza è emersa l’ostilità alla guerra anche del primo ministro indiano Narendra Modi. Certo, la Corea del Nord, con il placet di Pechino, può contribuire allo sforzo bellico russo. Stando poi alle dichiarazioni e immagini diffuse dagli Ucraini un drone di quelli consegnati a Mosca da Teheran in agosto – probabilmente un drone kamikaze Shahed-16 – è stato abbattuto. Il coinvolgimento nel conflitto di Teheran aumenta. Non saranno tuttavia né le armi e il munizionamento coreano né i droni iraniani a mutare il corso della guerra a favore di Mosca nelle prossime settimane.

A Putin, perlomeno nel breve periodo, resta una terza e ultima opzione: aumentare gli attacchi di rappresaglia, già iniziati, sulla popolazione e le infrastrutture civili ucraine, accompagnandoli con la rinnovata evocazione dell’escalation nell’uso della forza, perciò di allargamento verticale e se del caso orizzontale del conflitto bellico. È assai dubbio, alla luce dell’esperienza storica novecentesca e della cronaca di questi primi sei mesi di guerra, che colpire più duramente le città avrà un effetto decisivo sul morale degli ucraini. Rimane aperta la possibilità di escalation, con impiego a fini dimostrativi, deterrenti o coercitivi, di armi più potenti, fino a quelle di distruzione di massa. La probabilità di una simile evenienza non è certamente più bassa oggi di quanto fosse qualche mese fa, ma apre scenari “impensabili” per ognuno degli attori coinvolti nel conflitto. Se questo è il quadro allora è probabile che nelle settimane a venire, salvo qualche episodio significativo sul campo (a Kherson?), la guerra si “incisti”. Più interessante è semmai lo “smottamento” che quanto sta accadendo in Ucraina favorisce nello spazio ex-sovietico e, in modo più indiretto, altrove. Ne sono prova gli attacchi azeri agli armeni del 13-14 settembre, gli scontri di frontiera iniziati il 14 settembre tra Kirghizistan e Tagikistan e in modi e misura diversi l’aumentata tensione in Kosovo, la crisi di Taiwan e gli attacchi cyber iraniani contro Albania e Montenegro, che il 7 settembre hanno indotto l’Albania a rompere i rapporti diplomatici con Teheran.

Il sisma ucraino continua a provocare pericolose onde d’urto che scuotono l’intero sistema internazionale.

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