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Road map per un nuovo centrodestra

In seguito all’editoriale del direttore Michele Arnese, “Addio Berlusconi, avanti con Forza Italia Futura”, Formiche.net ha avviato un dibattito sul futuro del centrodestra. Dopo i commenti di Massimo Brambilla e di Carlo Stagnaro, ecco l’analisi di Lodovico Festa, giornalista e cofondatore del Foglio, editorialista e commentatore per varie testate.

È utile porre la questione del centrodestra italiano partendo dai “nomi” da mettere in campo? È evidente come le personalità abbiano ruoli rilevanti nella storia. Si consideri solo il caso Grillo: un comico pur sfiatato che riesce a mettere insieme il voto del 24 per cento di italiani perché rappresenta una protesta, sia di destra sia di sinistra, contro un governo tecnico che espropriava la sovranità popolare.
Però alla fine Beppe Grillo si aggiungerà a una lunga serie di salvatori della Patria finiti nella pattumiera: da Mario Segni ad Antonio Di Pietro, da Gianfranco Fini a Mario Monti. Il fatto è che il problema essenziale della politica è quello della “forza”, del ruolo che riesci a far esercitare allo Stato di cui sei – o aspiri essere – guida, e delle basi sociali che intorno a questo obiettivo riesci a organizzare. Se non parti dalla “forza” adeguata al tuo far politica al massimo puoi sistemare i tuoi conti in banca (più quei quindici minuti di popolarità a cui tutti possono aspirare) ma non creare alcuna determinante presenza nella società e nello Stato.

La nostra storia politica, dal 1992 a oggi
La nostra discussione pubblica aiuta poco a capire questo problema perché si concentra su temi laterali o indeterminabili: quanto conta la televisione, come si può essere perfettamente europeisti, i modi per divenire assolutamente virtuosi, quali sono i leader ideali. Ma così perde di vista quel che ha determinato la nostra storia dal 1992 a oggi.
Con uno Stato in piena crisi la nostra vita nazionale dopo la fine della Guerra fredda è stata indirizzata soprattutto dagli americani decisi a riorganizzare l’Occidente finita l’emergenza del confronto coi sovietici, e dai tedeschi proiettati a tenere in piedi un’Europa che accompagnasse la loro unificazione nazionale. I pm politicizzati che hanno epurato unilateralmente il nostro ceto politico guardavano soprattutto alla legittimazione straniera (dall’Fbi alla Goldman Sachs fino alla Bundesbank) più che perseguire un fine nazionale tipico invece dei golpisti tradizionali (dai generali turchi ai carabineros cileni). E sono stati coperti dal ceto politico mediocre sopravvissuto ai massacri di Mani pulite (da Oscar Luigi Scalfaro ad Achille Occhetto) guidato dalla teorizzazioni particolarmente esplicite in Carlo Azeglio Ciampi della necessità di un rigido vincolo internazionale per costringerci a essere virtuosi: prolungamento della radicata teoria elitistica per cui la società italiana sarebbe marcia perché non ha fatto la riforma protestante.

Gli effetti del berlusconismo
Il berlusconismo, ben lungi dall’essere un fenomeno riduttivamente televisivo, esprime la resistenza (peraltro assai rozza ma non inefficace) innanzi tutto dei ceti produttivi a essere ulteriormente estromessi da uno Stato, per di più tendenzialmente commissariato dall’estero. Alla fine questa esperienza politica ha retto per 19 anni (1994 – 2013) perché con tutte le sue anomalie ha espresso una funzione nazionale. Grazie al berlusconismo, anche a sinistra le cose sono parzialmente migliorate con un Romano Prodi più capace dei vari Segni e Ciampi anche se molto appiattito sulle esigenze dei suoi ambienti economici post-Iri e così non raramente estero-diretto, e con un Massimo D’Alema che ha tentato qualche via più patriottica ma con da una parte poco coraggio politico e dall’altra le procure che lo bastonavano ogni volta che scartava troppo.

E’ importante sottolineare come questo processo – che ha retto la Seconda repubblica dal 1995 al 2010 – sia stato possibile anche grazie a una Germania che aveva bisogno di un’Europa forte e di Stati Uniti che coglievano l’utilità del ruolo politico di Roma. Tutto ciò è arrivato al capolinea quando il Mediterraneo è andato in subbuglio e Washington ha puntato (dalla nostra Penisola al Cairo) innanzi tutto sulla semplificazione della governance e Berlino si è spaventata per la crisi del “debito sovrano” (nonché di una politica americana non ben precisa) e si è barricata su una linea ultrabottegaia.

Il tilt in cui intervenire
Con una crisi dello Stato non risolta innanzi tutto perché non si è riusciti a domare la tigre furiosa della magistratura combattente (vedi rapporti di forza spiegati da Angelo Panebianco), la nostra politica è andata in tilt. Ed è in questo tilt che si deve (se si può) intervenire. Ma per non essere gattini ciechi è indispensabile considerare il contesto. A mio avviso vi sono tre scenari possibili: americani e tedeschi trovano un accordo forte sul mercato transatlantico e ritengono di potersi spartire tutto a incominciare dall’Italia, non trovano un accordo forte e l’Italia diventa uno dei terreni del loro scontro, trovano un accordo debole e Roma acquisisce qualche spazio di mediazione. Insomma nel complesso uno scenario che ricorda molto l’Italia del ‘500 tra il re di Francia Francesco I e l’imperatore Carlo V.

I tre scenari da cui partire
Tutte le discussioni sul centrodestra devono partire da questi scenari se no, sono solo un intreccio tra chiacchiere da bar e fumo negli occhi per perseguire privati interessi.

Nel primo scenario (pieno accordo americano-tedesco) gli spazi saranno assai stretti quasi impossibili, negli altri due casi ci sarebbe l’occasione per riprendere (naturalmente tenendo fermi atlantismo ed europeismo) un minimo di reale sovranità nazionale (che impedisca tra l’altro a certi pm di devastare la nostra società, la nostra politica, i nostri sistemi di sicurezza e alcune delle principali imprese nazionali).

Per recuperare la sovranità nazionale
Per perseguire una linea di recupero di un minimo di sovranità nazionale sono necessarie le seguenti cose: un programma di emergenza che partendo dal “patrimonio” abbatta il debito (da qui un programma di tagli alla spesa pubblica e alle tasse), una riforma dello Stato (magari con un referendum indicativo se si vuole il presidenzialismo o un premierato forte), la riforma della giustizia (usando anche il referendum pannelliano sulla separazione delle carriere), alcune scelte di intervento rispetto all’azione della magistratura combattente che permettano una fase di tregua, un dialogo “responsabile” con la sinistra ma che la metta di fronte alle sue “responsabilità”.

Sulla base di un simile programma, saranno possibili, poi, tutte le ricostruzioni del centrodestra necessarie, con tutti i vari Luca Cordero di Montezemolo, Pierferdinando Casini, e così via.
Senza, prepariamoci a tante formazioni “Franza o Spagna purché se magna” a cui gli stomaci meno sofistici possono attrezzarsi a partecipare.



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