Cosa fare di fronte alle prolungate tensioni sui prezzi? Per i governanti si aprono varie possibilità di reazione con conseguenze molto diverse. Salvatore Zecchini spiega quali
Secondo le rilevazioni dell’Istat a settembre i prezzi al consumo hanno continuato nella loro ascesa raggiungendo tassi non visti dagli anni ’80. L’inflazione al consumo rispetto al dato dello scorso anno è arrivata all’8,9% su base annua, con un picco all’11,1% per i prodotti del “carrello della spesa”, un’ascesa che non si vedeva dal luglio 1983. Il nuovo rialzo dei prezzi ha interessato quasi tutti i prodotti con poche eccezioni, ovvero quelli energetici che pur restano su ritmi elevati (da 44,9% del mese precedente al 44,5%) e i prezzi dei trasporti (da 8,4% a 7,2%). A settembre i responsabili principali degli aumenti sono stati i prezzi degli alimentari e dei servizi ricreativi e per la persona, in questo caso resi possibili dal consistente ritorno della domanda nella stagione vacanziera.
Il diffondersi delle spinte inflattive a tutti i comparti è segno di una rapida trasmissione dei notevoli rincari dalle materie prime e dall’energia a tutti i comparti produttivi con il rischio di un radicarsi delle aspettative di alta inflazione in tutti gli operatori economici. Ne è prova il rialzo dell’inflazione di fondo, che è salita al netto sia dei prodotti energetici ed alimentari dal 4,4% al 5%, e ancor più escludendo solo l’energia (da 5% a 5,5%). Anche le attese delle imprese sull’inflazione al consumo per i prossimi 12 mesi sono in ascesa, collocandosi al 5,5% su base annua, e con ripercussioni nel biennio successivo. Per i prezzi alla produzione dell’industria il balzo al netto di quelli energetici è relativamente elevato (13% ad agosto) e si impenna al 40,1% comprendendo l’energia. Se ne può desumere che i rincari all’origine non si sono ancora trasmessi interamente al livello dei prodotti di consumo, lasciando un potenziale inflattivo considerevole. Ne risentirà con i mesi anche il livello dei prezzi nel comparto dei servizi, che finora è apparso il più lento a riflettere le spinte inflattive.
Nel confronto con l’inflazione nell’area dell’euro, quella italiana al consumo risulta a settembre leggermente inferiore: 8,9% contro il 10% atteso per settembre dall’Eurostat, mentre a livello di prezzi alla produzione l’ascesa dei prezzi è decisamente superiore (45,8% contro 37,9% ad agosto scorso, ultimi dati mensili disponibili). Guardando alle componenti che conducono alla misura complessiva, i rincari dell’energia hanno il ruolo principale insieme a quelli degli alimentari. Il quadro che emerge dai dati, pertanto, presenta: a) un aumento dei prezzi e delle relative attese ben lontano dall’obiettivo di stabilità monetaria; b) un potenziale inflattivo che non si è ancora pienamente trasmesso ai prezzi al consumo; c) diffusione dei rincari a tutti i comparti di prodotti, tensioni sui mercati internazionali dell’energia, ed erosione del potere d’acquisto delle retribuzioni con avvisaglie di nuove rivendicazioni salariali, il tutto in un contesto di rallentamento della crescita e dell’occupazione.
Cosa fare di fronte alle prolungate tensioni sui prezzi? Per i governanti si aprono varie possibilità di reazione con conseguenze molto diverse. Un’opzione è accettare l’impennata dei prezzi e il suo prolungamento nel tempo in considerazione del fatto che le loro cause sono esterne e difficilmente contrastabili. Gioca anche l’aspettativa che le tensioni dovrebbero placarsi in breve tempo per effetto dell’erosione della domanda di energia e di materie prime dovuta alla riduzione della domanda e della crescita. Pertanto, occorre ammortizzarne gli effetti sui bilanci delle famiglie e delle imprese con compensazioni temporanee a carico della finanza pubblica. La politica monetaria dovrebbe procedere in maniera molto graduale nel rialzo dei tassi d’interesse per non assecondare i fattori di depressione della domanda e anche per non creare nuove difficoltà nel finanziamento dei disavanzi pubblici. In altri termini, accettare i nuovi prezzi più elevati, le modifiche ai prezzi relativi di energia e input primari rispetto a quelli degli altri prodotti, ed evitare di frenare la domanda interna. Il sistema economico si adatterà alla nuova realtà dei mercati.
La tesi opposta sostiene che è arrivato il momento di spegnere i focolai d’inflazione per impedirne il perpetuarsi nelle aspettative delle imprese e dei lavoratori con conseguenti innalzamenti dei prezzi dei prodotti e ripetute richieste di incrementi salariali. Non si doma l’elevata inflazione se non accettando un indebolimento della domanda interna e della crescita. Un esempio in tal senso è dato dall’atteggiamento della Fed di J. Powell, che ha annunciato un’escalation dei tassi sotto il controllo della banca centrale nei prossimi mesi fin quando l’inflazione non rientrerà su ritmi coerenti con la stabilità.
Il precedente storico in tal senso è lo “shock di Volcker” all’economia americana in preda all’alta inflazione dopo i primi eccezionali rincari petroliferi degli anni 70. P. Volcker, presidente della Fed, nell’ottobre 1979 avviò una severa restrizione monetaria che portò il tasso sui federal funds al 17%. Ne seguì una recessione, crescente disoccupazione e forti proteste, che lo indussero ad abbassare i tassi. Superata la breve recessione, di fronte a un’inflazione che restava relativamente elevata a oltre il 12% e ben consapevole che la credibilità della Fed come garante della stabilità era in gioco, ritornò su una stretta monetaria che fece schizzare il tasso ufficiale a quasi il 20%, e persistette nella restrizione fin quando le aspettative d’inflazione degli operatori economici furono piegate. In soli due anni, tra il 1981 e il 1983, il tasso di inflazione scese dal 13,5% al 3,2%. Il prezzo da pagare fu una profonda recessione economica con alta disoccupazione, prima del ritorno a una solida crescita nella stabilità.
L’opzione estrema per contrastare l’inflazione, che ha avuto già applicazione in diversi paesi inclusi l’Italia e USA negli anni di Nixon, consiste nell’introdurre un blocco agli aumenti di prezzo. Si può attuare in diversi modi: o sulla generalità dei prezzi o solo su alcuni, o per brevi periodi o più a lungo, o in maniera rigida o fissando un livello limite oltre il quale non è consentito che vada il mercato. Un esempio di quest’ultimo caso è il price cap sui prezzi petroliferi che l’Italia ha proposto ultimamente in sede europea e che incontra le riserve di alcuni paesi per il rischio di riduzioni dell’offerta dai parte dei paesi petroliferi.
Nella lotta all’inflazione grande importanza ha il coordinamento tra indirizzo di politica monetaria e quello del bilancio pubblico. Nel caso in cui entrambi perseguissero un orientamento accomodante, in particolare con maggiori spese in deficit a carico del bilancio pubblico per attutire l’effetto dei rincari su famiglie ed imprese, sarebbe difficile attendersi un rientro verso la stabilità dei prezzi e un ripiegamento delle aspettative di inflazione nel breve termine. Si andrebbe, invece, verso una prolungata deriva di rialzi di prezzi e costi con deprezzamenti del cambio in stile sudamericano. Riconquistare la stabilità monetaria evitando i due estremi di alta inflazione e stagnazione o recessione sarebbe, piuttosto, possibile mediante un coordinamento in funzione disinflazionistica delle due leve macroeconomiche e di altre misure.
Attualmente in Europa entrambe le politiche appaiono relativamente accomodanti, con deficit oltre il 3% del PIL e debiti pubblici in espansione. La divergenza con le politiche monetarie condotte oltreatlantico ha già manifestato i suoi effetti con il deprezzamento di oltre il 16% del cambio dell’euro rispetto al dollaro. Ne conseguono nuove spinte inflazionistiche in quanto i prezzi dell’energia, di essenziali materie prime e prodotti primari, nonché di alcuni prodotti manufatti di impiego diffuso, quali i chip, sono determinati in dollari sui mercati internazionali o dai produttori dominanti.
Un’altra opzione nel contrastare l’inflazione è data dalle misure a carattere strutturale volte a migliorare l’efficienza dell’economia e contenere l’instabilità importata dall’eccessiva variabilità dei mercati esteri di input essenziali. Tra queste hanno rilievo quelle a favore di una maggiore concorrenza di mercato, di contrasto alle posizioni dominanti, di una minore dipendenza energetica da fonti estere, per l’efficienza e il risparmio di energia da parte di imprese e famiglie, e di flessibilità nell’impiego del lavoro. Le turnazioni in fabbrica per sfruttare le ore in cui l’energia costa meno servono a contenere i costi se non comportano oneri aggiuntivi. Queste sono alcune delle misure possibili che il governo uscente ha avviato e che il nuovo dovrebbe perseguire con determinazione, perfino superando leggi e tabù ritenuti intoccabili.
L’approccio migliore per uscire dall’alta inflazione sta, quindi, in un sapiente coordinamento di politiche e strumenti diversi e nella continuità dell’orientamento fin quando l’obiettivo sarà raggiunto. Ma la maggiore responsabilità ricade sulla banca centrale, il cui compito primario è perseguire la stabilità dei prezzi e quella finanziaria. Questo è il compito assegnato alla Bce nella sua fondazione e su questo pilastro si fonda l’unione monetaria di paesi tradizionalmente più proni all’inflazione con quelli più rigorosi.
Su questo punto si è pronunciato la settimana scorsa il governatore Visco con un articolato discorso che ha fatto a Firenze in un convegno sul tema. In breve, non si pronuncia esplicitamente a favore di una restrizione monetaria, mentre riconosce che i tassi d’interesse debbano aumentare per rientrare su normali condizioni monetarie, tuttavia in modo graduale. Parla di un difficile dilemma, ovvero “…in presenza di un brusco deterioramento delle prospettive economiche che riflette la perdita di potere d’acquisto dei redditi, rialzi dei tassi eccessivamente rapidi e pronunciati finirebbero per aumentare i rischi di una recessione. Qualora il deterioramento delle prospettive economiche si rivelasse peggiore del previsto, un eccessivo anticipo nella normalizzazione dei tassi ufficiali potrebbe risultare sproporzionato, minando la fiducia del pubblico nelle nostre azioni e rendendo paradossalmente più difficile il mantenimento della stabilità dei prezzi nel medio periodo… Si tratta di un rischio che merita di essere attentamente considerato insieme a quello di lasciare che l’inflazione resti eccessivamente alta per troppo tempo”.
Le argomentazioni che richiama in diversi punti si prestano a interpretazioni in contraddizione con quelle avanzate. Ammette che l’impatto dei rincari petroliferi sull’inflazione sia divenuto persistente, ma ritiene che le attese delle famiglie siano ancora ancorate alla stabilità perché la mediana rilevata in una recente indagine mostra un tasso atteso del 3% su un orizzonte di tre anni. Non rileva che sia ancora su un ritmo superiore all’obiettivo della Bce.
Conta sull’effetto che gli elevati rincari dell’energia hanno nel deprimere la domanda e quindi nel frenare le aspettative di inflazione e le richieste salariali. Ma l’esperienza del passato indica al contrario che in periodi di alta inflazione le rivendicazioni salariali aumentano per recuperare il potere d’acquisto perduto, con il rischio di una rincorsa tra prezzi e salari.
Evidenzia che dalle analisi econometriche risulta che i rialzi dei tassi hanno il maggiore impatto sulla dinamica dei prezzi dopo 1-2 anni e sul PIL dopo 18 mesi. Pertanto, il prossimi rialzi avrebbero il maggior impatto sull’inflazione quando l’economia è ormai in fase di rallentamento ed accentuerebbero il rischio di innescare o amplificare una recessione. Con questa considerazione implicitamente ammette che la Bce è intervenuta in ritardo nel passare alla restrizione monetaria, che è l’accusa rivoltagli da alcune parti e che precedentemente aveva tentato di smontare con varie giustificazioni. Implicitamente ammette, inoltre, che è mancata un’azione preventiva di drenaggio dell’eccessiva liquidità nel sistema, come sarebbe stato auspicabile.
Esitare adesso ad avanzare nella restrizione monetaria vuol dire la possibilità di dover attuare manovre ancora più radicali in seguito per invertire le aspettative e ritornare verso l’obiettivo di stabilità. La lezione di Volcker degli anni ’80 sembra non aver insegnato nulla, benché sia ugualmente applicabile nell’economia americana e in quella europea, sebbene la prima sia molto più flessibile nell’adattarsi ai cambiamenti epocali rispetto a quella europea.
Le dichiarazione del governatore non hanno, quindi, rassicurato gli italiani sul contenimento dell’inflazione, bensì hanno fatto sorgere nuovi dubbi sul se l’obiettivo di rientro nella relativa stabilità dei prezzi sia quello primario della banca centrale. Sembra più incerto di prima se assolverà il suo compito prioritario di spegnere i focolai secondari ed interni di inflazione. Nei prossimi 18 mesi vedremo la risposta.