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Il Mes torna alla ribalta. E diventa una sfida per Meloni

La riforma del discusso Meccanismo di stabilità ​per l’erogazione di prestiti a tasso (quasi) zero non può entrare in vigore senza le firme di Germania e Italia. Il futuro capo del governo dovrà scegliere se sposare la causa europea o respingere ancora uno strumento che si è trasformato in meccanismo anti-pandemia

Alla fine, la storia si ripete, anche quando si parla di Europa e di politica economica. Erano i tempi del governo gialloverde, quell’esperimento di governo mai provato prima tra Lega e M5S che resse poco più di un anno, quando l’allora esecutivo scavò un solco, non che fosse il primo, con l’Europa. Tema dello scontro, il Mes, al secolo il Meccanismo europeo di stabilità, già conosciuto come Fondo salva Stati.

MES SI, MES NO

Il veicolo, concepito con apposito trattato, è nato nel 2012, all’indomani della drammatica crisi sovrana in Grecia e dello scampato default italiano, in sostituzione del Fondo europeo di stabilità finanziaria, con l’obiettivo di dare sostegno ai Paesi membri in caso di crisi e di probabile fallimento. Ad oggi il Meccanismo europeo di stabilità ha salvato Cipro, Spagna e Grecia, erogando prestiti con tassi vicino allo zero ma a condizioni abbastanza stringenti in termini di finanze pubbliche.

Fin qui tutto bene. Solo che nessun Trattato europeo può effettivamente entrare in vigore se non viene sottoscritto e dunque ratificato da tutti i Paesi membri. Ed ecco che a quel punto sono comparse le prime crepe. Sia la Lega, sia il M5S, allora anime del governo, non ne hanno voluto sapere di firmare il Trattato che riformava il Mes, perché chiedere prestiti all’Europa avrebbe voluto dire indebitarsi e sottoporsi al controllo europeo. Oltre a mettersi la troika in casa, a monitorare costantemente i conti pubblici.

Poi è arrivata la pandemia, che ha conferito al Mes una diversa luce, facendone cioè uno strumento non più di solo intervento in caso di smottamento dei debiti sovrani, bensì di urgenza sanitaria: vale a dire la possibilità di attingere al fondo per sostenere il contrasto al virus che imperversava in Europa. Non se ne fece nulla e sempre perché all’appello dei firmatari mancavano, oltre all’Italia, la Germania.

IL REBUS ITALIANO (E TEDESCO) 

Ed eccoci ai giorni nostri, con il Mes tornato improvvisamente al centro della scena. Tanto per cominciare, Germania e Italia sono ancora latitanti, ora che Berlino ha peraltro in modo abbastanza inaspettato aperto all’emissione di debito comune per finanziare la risposta europea alla crisi energetica. E poi, se e quando la pandemia dovesse rialzare la testa e tornare a correre, ci si chiede se davvero non si possa sbloccare l’impasse e assicurarsi i prestiti del Fondo salva Stati.

Un bel rebus per Giorgia Meloni, da sempre contraria a nuovi impegni in bianco con l’Europa. C’è però da mettere agli atti la svolta della futura premier, che già prima delle elezioni, ma soprattutto dopo, ha smorzato le sue posizioni sovraniste verso una linea più morbida. “Nessuno Stato membro può offrire soluzioni efficaci da solo, in assenza di una strategia comune, neppure quelli che appaiono meno vulnerabili sul piano finanziario”, ha detto invocando “una risposta immediata a livello europeo” contro la crisi energetica. Per rendere credibile questo afflato europeista, Meloni però dovrebbe dare qualche segnale tangibile, magari a partire dal Mes. E, forse, aspettando segnali di fumo proprio dall’altra assente eccellente, la Germania.

IL NODO DELLA GOVERNANCE

Non è tutto. Il Meccanismo europeo di stabilità è in una situazione abbastanza complicata, a partire dalla governance.  Il consiglio dei governatori del Mes, che comprende i 19 ministri delle Finanze dell’area euro, ha appena nominato il vicedirettore generale Christophe Frankel alla carica di direttore generale per un periodo ad interim. Frankel svolgerà le funzioni di direttore generale fino al 31 dicembre 2022 o fino alla data in cui entrerà in carica un nuovo numero uno, nominato dal consiglio dei governatori.

La situazione è di stallo politico visto che fino a poco fa i candidati erano tanti e ora non c’è nessuno. Tra i papabili c’era anche Marco Buti, uno degli italiani con più esperienza a Bruxelles, che ha però ritirato la candidatura. Erano rimasti in lizza il portoghese João Leão e il lussemburghese Pierre Gramegna, ma entrambi si sono ritirati perché nessuno è riuscito a raccogliere l’80% dei voti necessari (attribuiti in base alle quote di capitale) per essere eletto.

L’OCCHIO DEI MERCATI

Poi c’è un aspetto più squisitamente tecnico. Il Mes, tra le altre cose, semplifica il processo decisionale nel caso di ristrutturazione del debito pubblico. Ad oggi, risulta necessario infatti per un governo ottenere il via libera sia degli obbligazionisti in possesso delle singole emissioni dei titoli di Stato oggetto di ristrutturazione, sia dell’insieme degli obbligazionisti in possesso di tutti i titoli di Stato.

Il Meccanismo introduce il single limb, vale a dire un’unica votazione da parte dell’assemblea che riunisce i titolari di tutti i bond oggetto di ristrutturazione. Ma l’arma è a doppio taglio. Se il mercato percepisse l’entrata in vigore del Mes come un modo per agevolare la rinegoziazione dei debiti più rischiosi, potrebbe prendere di mira il debito italiano. Palla a Giorgia Meloni.

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