La Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’indagine nata per sequestro di persona per finalità di terrorismo contro ignoti. Il commento di Riccardo Cristiano
C’è un giorno che ricordo bene. È il giorno in cui, con sorpresa, lessi su La Croix che alcuni amici di Paolo Dall’Oglio, da una Raqqa ormai conquistata dall’Isis, riuscirono a fuggire e a portare all’ambasciata italiana a Parigi alcuni effetti personali di padre Dall’Oglio: furono consegnati alcuni anni dopo alla sua comunità, qui a Roma. Forse quegli effetti, compresi telefono e tablet, non contenevano elementi decisivi per appurarne la sorte, ma l’odierna richiesta di archiviazione dell’inchiesta su padre Paolo per l’impossibilità di appurare a tanti anni di distanza il suo destino mi ha subito fatto tornare questo dettaglio.
È quindi una richiesta che in chi scrive crea un sommovimento. Ma quale esattamente? Dopo averci pensato, direi dolore, tanto. Non per la speranza che la giustizia riuscisse ad appurare oggi ciò che in nove anni non si è appurato, ma perché forse ci sono ancora strade non risolutive ma importanti da tentare. Certo non sta ai magistrati italiani decidere cosa fare con le vittime dell’Isis abbandonate nelle fosse comuni di Raqqa, se per esempio avviare come si fece in Bosnia un grande programma per l’identificazione di quei corpi. Governando lì i curdi e la coalizione anti Isis forse si poteva. Così poteva forse essere identificato il corpo di Paolo e questo avrebbe aiutato a ridurre il solco con tanti siriani che nulla sanno dei loro cari lì scomparsi: vivi, morti?
Mi chiedo anche se qualche rogatoria sia stata chiesta. Di ex Isis in carcere o no in giro da quelle parti ce ne sono tanti, qualcuno saprà qualcosa? Lo dico in appena due righe perché io non vedo la volontà internazionale di accertare la verità su cosa accadde a padre Paolo, ma mi addolora trasformare questa mancanza di volontà in una asserita impossibilità. E provo a spiegarmi. Un carissimo amico di Paolo sostiene, ad esempio, che lo accompagnò quel giorno al comando generale dell’Isis, tremando di paura. E quando giunsero nei pressi gli chiese a tu per tu: perché devi andare? Ti rendi conto, vero? Paolo gli avrebbe risposto che doveva farlo, aveva con sé un messaggio dei vertici del Kurdistan iracheno per quelli dell’Isis, per evitare il disastro universale che poi accadde.
Certo acquisire agli atti questo non cambierebbe il quadro investigativo. Ma ci permetterebbe di capire meglio di che eroe della pace e dell’amore per l’umanità parliamo quando parliamo di Paolo Dall’Oglio.
È andata proprio così? Non lo so. So bene però che nessuno confermerà quanto afferma questo amico di Paolo, che ho sentito personalmente e quindi immagino che per accompagnarlo quel giorno avrà tremato per dieci anni. Figuriamoci. Ma sarebbe un piccolo passaggio, utile a tutti noi per capire, anche in giorni come questi, cosa significa lavorare, credendoci per la pace e la riconciliazione. Per questo dico che sento dolore, perché certe inchieste valgono per quel che indicano come valori e testimonianze, prima che per le possibili novità processuali. Allora la cosa giusta è quella che hanno proposto due dei fratelli di Paolo: una commissione parlamentare d’inchiesta. Perché il servizio all’uomo lo merita, sempre.