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Perchè patto Gentiloni e Todi non bastano

I recenti risultati delle elezioni amministrative, soprattutto quelli del primo turno, non significano assolutamente che gli italiani sono diventati tutti di sinistra e radicali. Significano, invece, che gli italiani sono molto arrabbiati e che solo da sinistra è venuta un’offerta politica che vagamente corrispondesse a quello stato d’animo. Per varie ragioni in questo momento il centrodestra non fa offerta politica.
 
Questi risultati significano poi che neppure in condizioni estreme gli elettori italiani abboccano alla trappola del centrismo. Proprio gli elettori centrali vogliono più degli altri il bipolarismo e la democrazia dell’alternanza, perché solo in questo contesto istituzionale possono contare davvero, cioè possono decidere dell’esito della competizione elettorale.
 
Nonostante le situazioni davvero difficili e nonostante l’offerta politica di stampo radicale proveniente da sinistra, la quota di elettori moderati recatasi alle urne non ha neppure in questo caso abboccato al tranello centrista. Essa anzi continua a riconoscere nel centrismo un proprio avversario, perché il ceto politico centrista per continuare a vivere ha bisogno di una legge elettorale che tolga agli elettori il potere di decidere, mentre proprio gli elettori ideologicamente più vicini al centro, per contare davvero, hanno bisogno di una legge elettorale in qualche modo bipolare, che consenta loro di essere decisivi.
 
In questo senso l’abbandono del centrismo da parte di Casini, se confermato, può rivelarsi una svolta decisiva e positiva. Gli italiani, come nel ‘92 e nel ‘93, nonostante le apparenze, non sono di colpo divenuti tutti di sinistra e di una sinistra radicaleggiante, protestataria ed estremista. Semplicemente hanno registrato in vario modo la mancanza di un’offerta politica riformatrice.
 
A dir la verità, anche a costo di passare per pazzo, questo risultato elettorale ci dice che i padroni dell’offerta politica di sinistra hanno praticamente assorbito o emarginato la loro componente riformista. D’Alema l’ha detto, l’alleanza di Vasto è una realtà. Per l’esattezza è l’unica realtà del centrosinistra. Ma realtà è anche che il vasto campo riformista è al momento del tutto rimesso ad una possibile iniziativa politica di centrodestra. Al centrosinistra semplicemente non interessa.
 
Questa situazione non è assolutamente scolpita nella natura delle cose. Potrebbe verificarsi, infatti, come non di rado si è verificato persino in Italia, anche l’opposto. E cioè che la domanda di politica riformatrice trovi sordo il centrodestra e disponibile il centrosinistra. Tuttavia in questo momento non è così.
Dunque, per una finestra temporale che non sappiamo quanto lunga, la possibilità che il centrodestra conosca una leadership riformista capace di successo è un altro pezzo dell’unica realtà. Il che non garantisce assolutamente che questa possibilità verrà colta. Per un rinnovamento riformista del centrodestra, si può però dire, passano due condizioni decisive per la vita democratica del Paese. In ciò sta il valore generale che potrebbe avere una stagione riformista, sturziana, degasperiana, del centrodestra italiano.
 
Un centrodestra riformista tornerebbe ad essere competitivo e bonificante. Competitivo perché capace di dare risposta a una domanda politica riformista inespressa, ma maggioritaria. Così facendo questo centrodestra riattiverebbe la sana concorrenza col centrosinistra, allo stesso tempo riattivando un elemento essenziale della dinamica democratica e in prospettiva stimolando le ragioni – ora sepolte – di un eventuale ritorno riformista anche nel centrosinistra. La democrazia, infatti, per funzionare ha bisogno di almeno un riformismo, per funzionare bene di due. Non è un caso, allora, e qui starebbe l’effetto bonifica, che un centrodestra riformista porrebbe rimedio anche al trucco attualmente imperante di un governo tecnico. Trucco: perché per fare riforme la fatica del consenso non è un peso inutile, ma una condizione necessaria. Senza consenso niente riforme, e Monti ne è un esempio. Dunque: un centrodestra riformista candidandosi seriamente al successo elettorale aiuterebbe a porre velocemente fine ad una supplenza forse inevitabile, ma alla prova dei fatti poco fruttuosa e molto costosa.
 
Un centrodestra riformista non può essere una versione speculare dell’antiberlusconismo, che alla sinistra ha garantito vent’anni di sostanziale continuo insuccesso. Si capirà subito se un centrodestra riformista si va costruendo. Lo capiremo da tre cose. Lo si capirà dal fatto che opterà decisamente per il consolidamento del bipolarismo e non per il ritorno al proporzionale. Lo si capirà dal fatto che affiderà a primarie o a meccanismi equivalenti la soluzione della competizione interna. Lo si capirà dal fatto che non sceglierà di essere solo anti, ma saprà essere anche capace di una offerta politica riformista.
 
Altri due indizi potranno aiutare a capire se sarà stata presa la direzione di cui s’è detto. Oggi non si fa un centrodestra riformatore senza la Lega nord e non si fa un centrodestra riformatore chiudendosi alla ispirazione vitale e vivace di quel cattolicesimo politico che ha radici nell’opera di Sturzo e De Gasperi. Per far solo un esempio, il centrodestra sino ad oggi ha fatto il grave errore di non confrontarsi con i contenuti e i soggetti che hanno elaborato l’Agenda uscita dalla 46esima Settimana sociale dei cattolici italiani di Reggio Calabria. Ora è tardi, ma non è detto che sia ancora troppo tardi. La strada del riformismo passa per Sturzo e Reggio Calabria, e non per un nuovo patto Gentiloni e per Todi.


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