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Perché il Partito Comunista cinese vuole altri cinque anni di Xi Jinping

Xi Jinping è un’icona storica vivente. Con le sue ritualità, il congresso del Partito Comunista Cinese deciderà in questi giorni se riconfermare il leader alla guida assoluta del Paese

Gli oltre duemila trecento delegati che seguono in silenzio ossequioso l’intervento del leader Xi Jinping nell’enorme Sala del Popolo di Piazza Tienamen, a Pechino, durante il congresso del Partito comunista sono uno dei simboli della Repubblica popolare cinese. Un protocollo storico, una ritualità che affonda le sue radici nell’epoca imperiale.

Ogni cinque anni il Partito si riunisce in forma plenaria e decide come guidare la Cina per il lustro successivo. Non si scelgono solo il segretario generale, i sette membri del Comitato Permanente del Politburo, i 25 componenti del Politburo e il Comitato Centrale (204 membri). No, il Partito sceglie gli indirizzi politici e le linee narrative con cui raccontarsi ai cinesi – non solo ai 90 milioni di iscritti — e al mondo. Ossia, sceglie come portare avanti la propria sopravvivenza – che dura da 109 anni.

Il terzo mandato che sarà affidato a Xi Jinping non è dunque semplicemente una decisione storica (mai nessuno prima di lui), ma è anche l’acquisizione di una consapevolezza da parte di quelle due migliaia di membri del congresso che il Partito ha bisogno di lui per andare avanti. E questo significa aver accettato l’inversione del processo collegiale che ha regolato prima di lui il meccanismo decisionale del Partito – il comitato che elabora le direttrici per sottoporle alle discussioni del Politburo e ricevere l’avallo del segretario.

Ora, dall’arrivo di Xi, la macchina decisionale è totalmente nelle sue mani – condivisa con una ristrettissima cerchia di fedelissimi. Le restanti componenti del Partito sono quasi limitate alla ratifica delle volontà di Xi, che ha il merito di aver costruito l’attuale consapevolezza politica internazionale della Cina, su cui gli organismi interni di Pechino sono concordi, e che ha segnato questi dieci anni di attività globale cinese.

Quando nel 2007 fu eletto tra i membri del Comitato permanete del Politburo, Xi era considerato un riformatore pro-mercato; quando nel 2012 fu eletto segretario qualcuno lo considerava il Gorbaciov cinese. Ora, alle porte del suo terzo iconico incarico Xi – capo del Partito, capo dello Stato e capo delle forze armate per i prossimi cinque (e chissà quanti) anni ancora – è il leader nazionalista che ipotizza la crescita cinese attraverso una chiusura strategica.

La politica cinese ha un livello di imperscrutabilità anche legato all’alterazione delle informazioni diffuse e al sostanziale freno a indiscrezioni e pubbliche diatribe. Nessuno avrebbe previsto con anticipo che nel giro di pochi anni la Nuova Era di Xi non sarebbe stata di apertura, ma avrebbe condotto verso una riforma costituzionale enorme per eliminare il limite di due mandati – e rendere potenzialmente Xi leader cinese a vita.

Nel giro di dieci anni, Xi ha riformato la Cina verso un Paese più chiuso su se stesso, slanciandola contemporaneamente verso un’assertività internazionale globale, creando vettori geostrategici come la Via della Seta – globalizzazione con caratteristiche cinesi progettata per sfidare la globalizzazione pensata dall’Occidente e guidata dagli Stati Uniti. “Xi ha spinto la politica verso la sinistra leninista, l’economia verso il marxismo e la politica estera verso un nazionalismo di destra”, ha scritto su Foreign Affairs l’ex premier australiano Kevin Rudd.

La Cina di Xi Jinping ha abbandonato il sogno americano come riferimento di sviluppo ed emancipazione, perché il suo leader ha costruito un modello di ordine alternativo a quello occidentale. Ha creato una narrazione tra le sue collettività che quello da lui teorizzato è il modello funzionale – non quello disordinato e poco armonico delle democrazie occidentali – ed è riuscito a sfruttare gli spazi per promuovere questo modello nei confronti dei Paesi terzi.

Dal Congresso uscirà la volontà cinese per il futuro. La Cina è attualmente chiusa anche per le misure Covid Zero decise da Xi che sono forme di contenimento pandemico (anche legate all’inefficacia dei vaccini finora prodotti dalle aziende cinesi, ma simboleggiano la volontà di Pechino di isolarsi dal resto del mondo e provvedere da sé al suo sviluppo (lo dimostrano anche alcuni piani governativi in campo economico, produttivo, industriale, sociale).

Chiusa, la Cina limita le influenze dall’esterno e si pone nelle condizioni di rafforzare la propria narrazione interna in vista dello slancio globale. Ammesso che questa sia la strategia confermata, la competizione con gli Stati Uniti si snoderà non tanto attorno all’occupare lo stesso ruolo, ma nel diventare una figura di riferimento alternativa.

Alternativa che potrebbe essere vista come più efficace da alcuni Paesi che preferiscono l’approccio vocato alla non-interferenza nella costruzione di rapporti reciproci. Questa diversità nel suo essere potenza, mescolata all’eternità come continuazione della Cina dall’epoca imperiale a quella attuale, è una delle caratteristiche forti di tutto il periodo di Xi. E probabilmente tale resterà, sebbene serverà tempo per leggere i risultati del congresso.

Molto è (e probabilmente resterà) basato sul concetto di sicurezza del potere, punto di giunzione tra le dinamiche di politica interna e quella estera. La sicurezza nazionale – come tenuta interna del Paese e come meccanismo di sicurezza esterno alternativo alle alleanze e alle organizzazioni internazionali – sono il senso profondo del concetto alla base della leadership di Xi Jinping che il Partito intende confermare.



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