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Le idee della premier, la realtà dei conti (pubblici) secondo Visco

Intervista al più volte ministro dell’Economia e delle Finanze. Meloni ha aperto il libro dei buoni propositi, ma per realizzare tutto il programma servono risorse che oggi non ci sono. La flat tax si può fare e solo in parte, ma il rischio è continuare a balcanizzare il sistema fiscale italiano. Sì a una rete unica a controllo pubblico, ma rinazionalizzare Telecom mi pare un azzardo, rischiamo di tornare indietro nel tempo. Lo Stato deve supportare, non riprendersi tutto

Sedici pagine di idee e buoni propositi. Giorgia Meloni, nel suo primo discorso programmatico in Parlamento, ha messo molta carne al fuoco per delineare l’azione di governo nei mesi avvenire. Meno tasse, basta con le pulsioni da bonus, stop alla legge Fornero via nuove deroghe, probabile altolà al rifinanziamento del reddito di cittadinanza e una politica industriale a trazione decisamente statale, sono i capisaldi della melonomics.

Ma si sa, tra quello che si desidera e quello che si può fare, più che il mare, c’è di mezzo la finanza pubblica. Per questo uno come Vincenzo Visco, economista e più volte ministro dell’Economia e delle Finanze, nutre qualche dubbio sulla possibilità di realizzare l’intero programma. Tanto vale farsi un bagno di realtà e partire piano, senza far salire troppo i giri, specialmente quando il motore è ancora freddo.

Giorgia Meloni ha presentato il suo programma, nel suo primo appuntamento con il Parlamento. Impressioni a caldo?

Mi sembra che la cosa più rilevante che sia emersa dal suo discorso è che non ci siano soldi a sufficienza per fare tutto quello che si è detto e annunciato. Su questo, può sembrare una battuta ma non lo è, sono d’accordo con la premier.

Ammetterà tuttavia che i buoni propositi non mancano…

Quelli no, ce ne sono in abbondanza. Me ne sono segnati alcuni. La flat tax incrementale, la tassa piatta per i lavoratori autonomi, il taglio del cuneo fiscale e nuove deroghe alla legge Fornero, per evitare che si torni alle vecchie regole.

E questo, lei che di manovre ne ha scritte più di una, si può fare?

La flat tax si può fare, ma solo se si considera la parte relativa alla fascia di reddito tra i 65 e i 100 mila euro. Se lo vogliono fare i soldi li possono anche trovare. Ma se proprio lo vuole sapere io considero l’estensione della tassa piatta a 100 mila euro una cosa ignobile.

Altro caposaldo Visco, la tregua fiscale. Qui che cosa mi racconta?

Che in realtà sarà un condono. Meloni lo ha detto con prudenza ma lo ha detto. Vede, ho la vaga sensazione che questo governo abbia deciso di guardare a un passato che non può tornare. Sa perché? Negli anni 60 a momenti si andava in pensione a 40 anni e ora che il mondo è cambiato, la vita si è allungata, si vuole in qualche modo tornare a quei privilegi, come dimostra la volontà di fermare il ritorno alla Fornero. C’è qualcosa di anti-storico in tutto questo.

Andiamo avanti. Il costo del lavoro, la premier ha annunciato un’operazione per ridurlo di 5 punti percentuali. Per ingrassare le buste paga e sgravare gli imprenditori. 

Questo fa parte del discorso che stavamo facendo. Detassare il lavoro va bene ma se lo si vuol fare bisogna riequilibrare da un’altra parte, altrimenti il gioco non riesce. Quando le dico che ho paura che si voglia scassare e balcanizzare il sistema fiscale italiano, più di quanto non lo si sia già fatto, penso proprio a questo. E poi scusi, questa idea del cuneo ce l’ho avuta io 20 anni fa.

Non si sarà mica offeso…

No. Ma le dico come sono andate le cose. Con l’Irap, quando ero ministro, fiscalizzammo i contributi sanitari ed eliminammo altre imposte. L’Irap aveva un’aliquota intorno al 25%, tassammo tutti e riducemmo il costo del lavoro. Questo per dire cosa, che ridurre le tasse va bene, ma non lo si può fare in deficit, si aumenta da una parte per ridurre da un’altra. Altrimenti bisogna ridurre le spese, allora è un’altra storia.

Basta con le tasse, parliamo della politica industriale. Nelle parole di Meloni è emerso un chiaro ritorno dello Stato baricentro dell’economia e, forse, anche della finanza. Condivide questa sensazione?

Uno può pensare a un ruolo attivo dello Stato, ma nel senso di dire che lo Stato deve indirizzare le imprese e le attività strategiche, intervenendo con sussidi e qualche partecipazione. Questo è un approccio ragionevole e moderno. Se questa è la lunghezza d’onda del governo allora mi trova d’accordo. Ma se l’obiettivo è difendere i campioni nazionali, allora lo trovo pericoloso. C’è poi il problema di Telecom.

Già, Tim. La rete unica finirà con ogni probabilità sotto il cappello dello Stato ma Fratelli d’Italia non ha mai fatto mistero di sognare una rinazionalizzazione della società, a mezzo Opa (di Cdp, ndr) e a 25 anni e passa dalla privatizzazione. Stride coi tempi che corrono?

L’idea è proprio quella, una rete pubblica frutto della fusione tra gli asset statali (Open Fiber, ndr) con quelli dell’ex monopolista che oggi sono complessivamente privati. E questa è una cosa che si può anche fare. Ma rinazionalizzare Telecom è un altro paio di maniche, perché vuol dire tornare indietro nel tempo. Ma lei lo sa quanto ci sono costate le grandi aziende pubbliche?

Miliardi.

Ecco. Allora bisogna ragionare con il libero mercato. Ripeto, se c’è da fornire appoggio e sostegno alle imprese allora sì. Ma se si deve tornare indietro nel tempo, allora no, non mi pare proprio il caso.

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