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Tra insegnamento di Draghi e destra storica. Meloni secondo Polillo

Essere dentro i meccanismi decisionali dell’Unione europea, non solo per difendere i più che legittimi interessi nazionali. Ma per costruire al meglio quelle soluzioni, che servono per l’intera Europa. Da questo punto di vista, l’insegnamento di Mario Draghi è fin troppo evidente. L’analisi di Gianfranco Polillo

La prima volta di una donna nella fossa dei leoni. Ma Giorgia Meloni se l’è cavata benissimo. Un discorso a tutto tondo, con il respiro strategico che si deve a un intervento, che vuol tracciare un programma di legislatura. Che non ha tralasciato alcun aspetto dei principali problemi italiani. Interni ed internazionali. Non tenteremo, comunque, di farne un resoconto. Non per supponenza. Ma per cogliere le novità di un intervento, ben diverso dai vecchi cliché dei precedenti governi. Dove la novità?

Soprattutto nel metodo. Leggere, il lungo elenco degli argomenti affrontati, con gli occhi di chi ha un diverso modo di vedere la realtà. Accennare ai singoli problemi, ma al tempo stesso prospettare soluzioni, che altri non avevano tentato o voluto condurre in porto, con la necessaria determinazione. Ne è derivato un continuo gioco di specchi, grazie al quale dimostrare in che modo l’innovazione poteva diventare strumento di soluzione. E quindi di governo e di trasformazione.

Un esempio su tutti. Parlando dell’Europa, l’approccio non è stato né quello euroscettico, come alcuni auspicavano e tanti temevano. Né la visione aulica, di chi, in tutti questi anni, si é solo limitato ad esaltarne le virtù. Vedendo in quella supremazia politico – amministrativa una sorta di appendice costituzionale, nel rispetto della quale adeguare politiche e comportamenti. “Lo chiede l’Europa”. Per il presidente del Consiglio, il problema non è se stare o non stare in Europa. Ma come starvi. Da protagonista, al pari degli altri partner, o da semplici azionisti di minoranza, in grado, al più, di fare blocco, per evitare le soluzioni più sgradite?

Il che porta immediatamente a una seconda indicazione. Essere dentro quei meccanismi decisionali, non solo per difendere i più che legittimi interessi nazionali. Ma per costruire al meglio quelle soluzioni, che servono per l’intera Europa. Da questo punto di vista, l’insegnamento di Mario Draghi è fin troppo evidente. Il “whatever it takes” fu decisione assunta, anche, nell’interesse dell’Italia. Ma non solo. Fu infatti la condizione destinata a salvare l’euro, come moneta comune. Schema destinato a ripetersi nell’ultimo consiglio europeo dedicato all’energia. Ed ecco allora che il nuovo rapporto della Meloni con Emmanuel Macron assume un preciso significato. Che è poi quello di evitare che l’Europa continui ad essere un vaso di coccio, destinato inevitabilmente, se non cambia pelle, ad essere stritolato dalla geopolitica del futuro.

Altra cornice di metodo: lo sviluppo “come variabile indipendente”, per riprendere, rovesciandolo, il vecchio slogan di Luciano Lama. La grande tessitura che dovrebbe governare i principali aspetti del vivere moderno. Sviluppo contro assistenzialismo. Crescita economica come antidoto all’inedia. Ed allora: innovazione tecnologica e lavoro sempre più qualificato. E quindi formazione, istruzione, merito (articolo 34 della Costituzione). Quel merito di cui Landini nega l’importanza, ma così facendo porta il più forte sindacato italiano a sostenere il “demerito”. Quale inevitabile corollario di un malinteso principio egualitario.

Il problema non è tanto quello di liberare gli animal spirit. Ma semplicemente di “non disturbare chi vuole fare”, rompendo soprattutto quelle barriere burocratiche che soffocano e vanificano chi vorrebbe dare il proprio contributo. “Che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino”: diceva Mao Tze-tung nel 1956, per combattere contro la sclerosi del modello sovietico. Può sembrare un accostamento fin troppo audace. Ma se si osserva, in controluce, la società italiana, allora, la rigidità di tante giunture rimandano ad un’immagine complessiva, che è più vicina a quel “modello”, che non all’archetipo delle democrazie liberali.

Un discorso di verità, quindi. Che solo a destra poteva essere fatto, rompendo i tanti tabù di una cultura politica sedimentata, incapace di uscire dagli orrori del ‘900. Che la stessa presidente del Consiglio ha voluto richiamare per superare. E dispiace che Enrico Letta sia rimasto impigliato nel suo “archeologismo politico” avrebbe chiosato Massimo Cacciari. Che non abbia voluto o saputo raccogliere la sfida, per rievocare, ancora una volta, episodi coperti dalla polvere di cento anni di storia. Episodi, ovviamente, terribili. Ma che fanno parte del “legno storto”, per dirla con Kant, della storia nazionale. Il retroterra unitario da cui partire per evitare, ancora una volta, di trasformare in nemico il proprio avversario politico.

Tant’è che, nei giorni passati, gran parte delle opposizioni e dei loro giornali fiancheggiatori non hanno esitato a parlare del trionfo di una “destra-destra”. Non solo più o meno contigua con il passato fascista, ma eversiva in diversi punti programmatici. Si pensi al tema del presidenzialismo o a quello dei diritti. Ne consegue che il riferimento al Risorgimento, contenuto nel discorso di Giorgia Meloni, è passato sotto silenzio. Anzi vi è stato chi ha eccepito, per un salto compiuto verso la contemporaneità, che le avrebbe consentito di ignorare la Resistenza. Altra rimozione.

Sbaglieremo, ma a noi la logica più complessiva del discorso della presidente ha richiamato alla mente la Destra storica dei primi anni del Regno d’Italia. Del resto se si esclude l’esperienza fascista, quale può essere il retroterra teorico della destra italiana?



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