La guerra in Etiopia è in pausa con tutte le buone speranze del caso. Il conflitto ha sensibilizzato una serie di divisioni e problematiche che richiedono la massima attenzione e assistenza da parte della Comunità internazionale. Un interesse anche per l’Italia
I ribelli del Tigray e il governo etiope hanno concordato mercoledì 2 novembre una “cessazione permanente delle ostilità”. La strada da percorrere per assicurarne il mantenimento è ancora lunga e gli accordi precedenti sono falliti. Ma è una speranza di trovare una forma di pacificazione in uno dei più violenti conflitti in corso, e poter intervenire nella crisi umanitaria collegata.
Probabilmente non conosceremo mai l’intera portata delle sofferenze provocate dalla guerra, il bilancio delle vittime delle sole battaglie è stato sconcertante, quindi anche se si trattasse soltanto di una pausa nei combattimenti sarebbe un risultato. Da qui parte un rinnovato impegno internazionale per costruire un percorso condiviso di negoziato.
Un documento interno delle Nazioni Unite (Formiche.net ha avuto informazioni sui contenuti) ha registrato il sensibile aumento di morti civili a causa di attacchi aerei negli ultimi due mesi. Sono state inoltre individuate prove, anche recenti, su atrocità commesse dai soldati etiopici ed eritrei, come per esempio ciò che è avvenuto nel villaggio di Shimblina, nel Tigray nord-occidentale, tra il 6 e il 12 settembre, dove diversi cittadini innocenti sarebbero stati giustiziati.
Questi fatti non sono unici, anzi. Ma danno una fotografia degli ultimi mesi di combattimento, che sono stati particolarmente violenti anche a causa della spinta che l’esercito eritreo — schierato sul lato di Addis Abeba perché ha conti aperti con i tigrini — ha dato al conflitto. Secondo l’Onu, dal 24 agosto quasi mezzo milione di persone sono state sfollate a causa dei combattimenti nell’area di Shimblina e a sud-ovest di Shire, vicino al confine tra Amhara e Tigray.
Tutto questo avviene all’inizio della principale stagione del raccolto in una regione devastata e fortemente dipendente dall’agricoltura. Secondo fonti locali, le atrocità durante l’ultima offensiva sono state molte altre, anche se ancora non sono state diffuse prove di questi ulteriori crimini.
La necessità di fermare la guerra del nord dell’Etiopia ha anche un’altra ragione: il conflitto non è l’unico a colpire il Paese. Per esempio, l’Esercito di Liberazione Oromo, che combatte contro il governo in Oromia, è cresciuto di dimensioni, poiché soprattutto i giovani Oromo sono diventati disillusi dal fallimento dei mezzi non violenti per migliorare la storica emarginazione del loro popolo.
Ci sono anche violenze etniche in varie altre parti dell’Etiopia, e con la pandemia e la guerra che hanno paralizzato l’economia certe tensioni potrebbero diventare ancora più esplosive. Un altro fattore che potenzialmente può guastatore l pace nel nord sono le rivendicazioni dell’Amhara. E infine c’è anche un quadro regionale critico, con l’Etiopia presa dalle questioni che riguardano la diga Gerd, sbarramento sul Nilo che ha portato Egitto e Sudan a prendere posizioni molto dure contro Addis Abeba.
La portata e l’intensità della brutalità del conflitto tigrino collegate a tutta questa serie di problematiche aprono a un grande interrogativo: l’Etiopia potrà mai tornare a funzionare come uno Stato unitario, dopo che i disaccordi sulla situazione federale sono stati uno degli antecedenti storici della guerra?
Un’ovvia insidia potenziale è rappresentata dall’impegno dei ribelli a disarmare in funzione della situazione della sicurezza nel Tigray: “La sequenza del disarmo e la fiducia, che sostanzialmente non c’è, saranno fondamentali”, fa notare Joshua Maservey, research fellow for Africa alla Heritage Foundation.
Un pericolo significativo è che il presidente eritreo, Isaias Afewerki, che considera il Tigray come il suo principale nemico e sembra credere che la guerra sia la sua opportunità di distruggerlo e per consolidare la sua leadership, mandi a monte l’accordo rifiutandosi di ritirarsi o provocando ulteriori ostilità.
In questo clima, è evidente che il ruolo della Comunità internazionale sia cruciale, con attori come Stati Uniti e Unione Europea che avranno il compito di assistere le Nazioni Unite e l’Unione Africana nello sviluppare strategie di pacificazione e negoziato efficaci.
Sostenere l’accordo e aiutare la transizione verso una pace permanente è un interesse, perché la guerra etiope è causa di destabilizzazioni interneopia all’Africa che potrebbero facilmente riversarsi anche sugli interessi nazionali di Paesi come l’Italia — per cui il Corno d’Africa è un ambito di proiezione strategica e per cui la crisi potrebbe produrre effetti sui flussi migratori in risalita verso il Mediterraneo.