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Ci stiamo giocando il futuro dell’Europa. Il monito di Andrea Riccardi

Di Giulia Gigante

Guerra in Ucraina, ruolo della Chiesa nella politica, debolezza diplomatica dell’Europa. Colloquio a tutto campo con Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio che da poco ha ospitato il Papa, Macron e Mattarella in un incontro storico

Il cattolicesimo italiano ed europeo, nonostante la profonda crisi che mette in dubbio i principi e le liturgie secolari, riesce ancora ad avere un ruolo nel processo di sensibilizzazione e distensione dei conflitti” Il professor Andrea Riccardi, già Ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione, e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, racconta l’incontro con Emmanuel Macron e il Presidente Mattarella, esplicita la sua posizione in merito all’aggressione russa e lancia un avvertimento all’Europa e all’Occidente: o pace o morte, nel giorno della manifestazione organizzata dalla sua e da altre decine di organizzazioni.

L’incontro di preghiera per la pace con i leader cristiani e delle religioni mondiali, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio al Colosseo, è stato un momento fondamentale di riflessione e impulso verso la conciliazione. Papa Francesco ha concluso così: “Non siamo neutrali, ma schierati per la pace. Perciò invochiamo lo ius pacis come diritto di tutti a comporre i conflitti senza violenza”.

Professore, come come si può dare forma e sostanza alla preghiera del Pontefice divenuta invocazione, “grido”? Cosa significa in termini geopolitici essere schierati per la pace?

Innanzitutto, si tratta di un discorso che il Papa pronunciò presso l’università di Bologna, ormai diversi anni fa, ed è una posizione centrale del suo modus operandi.  L’espressione “neutrale” cela un elemento di freddezza, quasi di distanza, e i pontefici che si sono succeduti non sono mai stati neutrali, anzi hanno guardato alla pace come obiettivo della loro azione e punto focale della loro visione. L’incontro interreligioso di Roma, promosso da Sant’Egidio, con la presenza di Macron e di tante altre personalità, tra cui il Presidente Mattarella, ha rimesso al centro l’obiettivo della pace, profondamente trascurato. Negli ultimi vent’anni si è affacciata sempre più prepotentemente l’idea della guerra intesa come una compagna naturale della storia umana.

Questo è dovuto a molti fattori, tra cui lo scomparire delle generazioni che hanno vissuto la Seconda guerra mondiale e al venir meno dei testimoni della Shoah. Nonostante i fallimenti legati agli interventi militari (pensiamo, ad esempio, all’invasione dell’Iraq) l’accettazione passiva della guerra è divenuta sempre più accentuata, mentre il tema della pace sembra eclissarsi gradualmente. O peggio viene considerato sinonimo di debolezza, di tradimento, di antiamericanismo, di filo-putinismo e via dicendo. Il che risulta incredibile e rappresenta una distorsione culturale, poiché la pace resta l’obiettivo centrale della vita umana. Shalom.

Ma, nientemeno, la pace è lo scopo ultimo anche di chi combatte. Del resto, ci sono diverse paci come ci sono diverse tipologie di guerre. Le prime possono essere frutto della vittoria o del compromesso. A tal proposito, come ha sostenuto il Presidente Macron, la pace è sempre impura perché deve accettare dei compromessi e sintetizzare volontà diverse. Non dimentichiamo che gli Alleati, pur di trionfare sul nazismo, accettarono di cedere una parte del Vecchio continente al dominio sovietico. Perciò, non capisco lo scalpore che, oggi, suscita il messaggio di pace. Ho come la sensazione di una improntitudine culturale, invece bisogna ristabilire le proporzioni, perché nella passione della guerra le proporzioni perdono le giuste misure.

 “Non lasciamo che la pace sia catturata dal potere russo. Oggi, la pace non può essere la consacrazione della legge del più forte né il cessate il fuoco che definirebbe uno stato di fatto”. Queste le parole di Emmanuel Macron nell’intervento tenuto il 23 ottobre durante l’evento organizzato dal vostro movimento. Dal suo punto di vista, qual è la linea di politica estera da adottare in merito al conflitto russo-ucraino?

 Guardi, non sono al governo e non mi occupo della politica estera del Paese. Voglio dire, non detto una linea. Sono un osservatore partecipe delle vicende ucraine, questo sì. E quando invochiamo e lavoriamo per la pace, lo facciamo soprattutto per l’Ucraina. Fin dagli anni ’80 ho viaggiato lungo questa terra, nel periodo sovietico incontrai a Leopoli gli indipendentisti del Ruk. Cioè voglio dire, conosco e stimo il sentimento di indipendenza ucraino da tempi lontani. E mi fa male il calvario di questo Paese. Non posso fare a meno di chiedermi: quanto durerà questa notte? Una notte inaugurata dall’invasione russa, è giusto sottolinearlo.

Oltre allo sforzo militare degli ucraini c’è bisogno di qualcosa d’altro. Questa è una lotta fratricida, perché divide le famiglie; un fratello abita a Kiev e una sorella abita a San Pietroburgo. I due popoli sono intrecciati. Certo è anche un conflitto che ha compattato in maniera forte gli ucraini, ma stiamo attenti, perché considerando le armi introdotte e la potenza atomica della Russia, è altamente probabile che sfoci in una guerra senza fine, che dissanguerà il popolo ucraino e che comporterà la morte di tantissimi giovani russi. L’esempio della Siria è calzante, non mi stancherò mai di ripetere che il caso siriano è stato la prova generale della guerra in Ucraina, almeno per le forze armate russe e i suoi comandanti (che abbiamo ritrovato poi nella guerra all’Ucraina).

Il sostanziale disimpegno verso la Siria contribuisce a mantenere vivo lo stato di guerra. Questa è la mia preoccupazione, vogliamo relegare l’Ucraina a un decennio di sangue e distruzione? Allora, bisogna moltiplicare l’impegno diplomatico.  C’è un “nanismo diplomatico”. La Cina e gli Stati Uniti sono gli attori decisivi di una ripresa diplomatica. E poi, soffro per l’impotenza diplomatica dell’Europa. Perché in fondo l’Europa ha una diplomazia modesta.

 La Comunità di Sant’Egidio ha dato vita a numerose opere per arginare la povertà e per sostenere gli indigenti. Ergo, su questo terreno possedete il polso della situazione, un attendibile termometro sociale.  Il tanto discusso Reddito di Cittadinanza è una misura funzionale al ridimensionamento del problema, oppure è solo una variante infruttuosa e propagandistica dell’assistenzialismo statale?

 Il reddito di cittadinanza va corretto laddove emergono storture. Però è una misura che ha svolto una funzione molto importante, ho avuto modo di constatarlo nelle persone più fragili, escluse dal mercato del lavoro. Insomma, ritengo che non vada demonizzato.

 Lei ha incentrato i suoi studi sui rapporti tra Stato e Chiesa. Al giorno d’oggi, la Chiesa quale ruolo svolge all’interno della società e della politica italiane?  E su quello internazionale?

 Beh, ho già scritto e segnalato sul Corriere una crisi di rilevanza della Chiesa. Sono convinto che ci sia un problema di introversione del cattolicesimo europeo e del cattolicesimo italiano. Questo è un fatto grave, dovuto non solo a interventi o ad azioni politiche, bensì un problema di pensiero e di visione. Mi sembra che sul tema della pace si avverta un certo peso del cattolicesimo italiano, stimolato dal Papa e dal presidente della Cei, e si vada collocando non solo come un grido in piazza ma con delle riflessioni interessanti, e con una notevole partecipazione al dramma ucraino. Faccio notare l’impegno nell’accoglienza ai profughi ucraini, i quali non hanno avuto difficoltà a integrarsi nel nostro Paese. Segno evidente delle generosità che contraddistingue la comunità italiana, come abbiamo potuto testare durante il periodo pandemico.

Il 21 maggio 2009 venne insignito del premio Carlo Magno per aver saputo “onorare un esempio straordinario di impegno civile in favore di un’Europa più umana e solidale all’interno e all’esterno delle sue frontiere”. Questa Europa, soprattutto dopo lo sconvolgimento politico-economico provocato dalla guerra, ha bisogno di cambiare? Come? In che forma?

 Questa Europa è stata solidale nel coinvolgimento dei paesi dell’Est, però vorrei ricordare la spaccatura avvenuta tra Est e Ovest nel corso del processo di accoglienza dei profughi siriani. Credo che l’Europa, nella guerra russa-ucraina, non abbia saputo esercitare un ruolo proprio, se non alcune iniziative intraprese dal Presidente Macron. Oggi, l’Europa deve assumere una sua voce politica, altrimenti resterà a margini dell’incontro-scontro tra i giganti del mondo. Confidando solo sulle risorse e politiche nazionali, rischiamo di essere marginalizzati, di divenire appendici della storia o una Disneyland per turisti. Guardi la profonda crisi inglese, un Paese che ha scelto di giocare fuori dall’Europa.

Certo, alla breve può dare qualche vantaggio, ma alla lunga si è costretti a fare i conti con le pesanti conseguenze. Tuttavia, non basta restare in Europa, bisogna fare l’Europa, rafforzare la politica estera, investire sulla difesa comune. Lo stiamo facendo? No. Stiamo investendo sulle difese nazionali, e in questo senso l’Europa mi sembra, come dire, infragilita. E la crisi ucraina è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma non dispero. Le risorse umane e materiali ci sono. Ci vogliono visione, lungimiranza, generosità, coraggio politico.



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