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Previdenza, la collaborazione tra le generazioni

A me non piace l’idea spesso evocata di scontro generazionale. Non mi piace pensare che il futuro si manifesta solo con i conflitti; e non mi piace soprattutto utilizzare formule retoriche. Tantomeno se si parla di invecchiamento della popolazione e di pensioni.
Non c’è nessuna battaglia all’orizzonte tra giovani e meno giovani; almeno non sul fronte della previdenza. Anzi, una delle fondamentali (ma misconosciute) novità di questi anni di riforme delle pensioni, è proprio quella che riguarda il cosiddetto metodo contributivo. Chi ha iniziato la sua vita lavorativa dopo il 1996 andrà in pensione contando solo su quello che avrà versato nel proprio salvadanaio previdenziale. Meno conflitto generazionale di così! Nessuno sguardo invidioso alle prestazioni “pagate” con i soldi degli altri. Il sistema retributivo era generoso, troppo, e in maniera differenziata. E, quello sì, capace di determinare contrasti fra generazioni, alcune più fortunate di altre. Il mondo dei meno giovani di oggi è destinato a non assomigliare a quello dei meno giovani di domani. Ma potremo dire che il futuro dell’Italia è quello di un Paese per vecchi, tutti uguali – nelle regole – davanti alla pensione.
Il futuro ci renderà più simili: ciascuno sarà protagonista del proprio fascicolo previdenziale, in una prospettiva anagraficamente più ottimistica. Fortunatamente la vita media aumenta: migliori condizioni di vita, migliori cure, migliore alimentazione. Anziano è sempre più sinonimo di risorsa e non di problema. Ma occorre una piccola rivoluzione culturale per cui l’età di fine lavoro non possa più essere slegata alla dinamica della vita.
 
Negli anni passati ci volle del tempo per convincere i più ideologizzati che il salario non poteva essere una variabile indipendente; lo stesso dicasi per l’età legale di pensione. Come quello si agganciava alla produttività, questa si fa condizionare dall’aspettativa di vita. Non si può immaginare di vivere più della metà dell’esistenza senza contribuire alla previdenza. In anni passati sono bastati persino 15 anni di vita lavorativa attiva per ottenere pensioni per i restanti trenta o quarant’anni di esistenza. Oggi non è più così. E domani l’uscita dal lavoro sarà sempre più rigorosamente legata all’evoluzione dell’età anagrafica.
Il Libro verde Ue sul welfare ha raccomandato proprio questo: i sistemi previdenziali devono rendersi stabili e sostenibili agganciando in via automatica l’età di pensione con quella della vita. Solo l’Italia e la Svezia hanno avuto la capacità e la lungimiranza di trasformare l’obiettivo europeo in realtà. Ma come spesso accade a noi italiani, siamo riusciti ad offuscare uno dei primati che ci contraddistinguono sulla ribalta internazionale.
La nostra riforma delle pensioni, pressoché conclusa nell’estate del 2010, dopo 18 anni di un cantiere lungo e laborioso, ha assicurato un futuro certo agli anziani di domani. L’Inps ha un dovere di continuità in questo passaggio tra gli anziani di oggi e quelli di domani. Una continuità che non si fa solo con la prospettiva della pensione.
 
Innanzitutto parliamo di quella separazione che un tempo era netta nella vita delle persone: da una parte il tempo del lavoro, dall’altra quello della pensione. Dal 2008 qualcosa è cambiato: è stato abolito il divieto di cumulo tra pensione e retribuzione; cioè è ormai possibile tornare a lavorare dopo aver conseguito il diritto alla pensione. Ecco, si dirà, un altro segnale di quel conflitto generazionale che si vorrebbe negare. Niente affatto: il cumulo c’è sempre stato, ma era economia sommersa. Oltre alla pensione, la retribuzione c’era comunque, ma era in nero. Difficile che una vita di lavoro, di esperienze, di competenze venga azzerata solo perché si compiono 65 anni. Difficile che il lavoratore voglia del tutto staccarsi dal lavoro; difficile che il datore di lavoro voglia privarsi della risorsa preziosa di un collaboratore efficiente. Questo non vuol dire impedire ai giovani di entrare al lavoro, anzi è vero il contrario: molto spesso i nuovi ingressi sono favoriti dalle transizioni meno traumatiche.
Lo si vede anche per un altro strumento di flessibilità, come il voucher. Il buono lavoro è stato introdotto anche per favorire le prime esperienze lavorative – accessorie e occasionali – dei più giovani. Ma la flessibilità ha finito per favorire anche i meno giovani. Se un anno fa gli under 25 che utilizzavano i voucher erano meno del 10% e gli over 65 erano quasi il 50%, oggi si è passati a un rapporto di 15-45. Insomma, si tratta di un’altra prova dell’inesistenza di un conflitto generazionale, ma di una progressiva osmosi delle generazioni, quanto più si dispongono di strumenti meno rigidi.
 
Tra i luoghi comuni da sfatare per i meno giovani c’è anche quello del cosiddetto “digital divide”. Sicuramente i “clienti” più assidui dell’Inps sono quei 14 milioni di pensionati che ogni mese incassano l’assegno di quiescenza. Gli attuali assicurati – i lavoratori attivi – sono molto più numerosi, ma non avvertono ancora (e questo è una lacuna della cultura previdenziale nazionale) l’importanza del rapporto con l’Istituto. Il pensionato è un attento interlocutore delle prestazioni. Nella volontà dell’Istituto di procedere a una forte telematizzazione dei suoi servizi, qualcuno ha temuto che gli anziani finissero per essere un po’ penalizzati. Meno sportello, più sito web è una direzione inevitabile nell’evoluzione del servizio dell’Inps. Con provvida attenzione è stato integrato il servizio telefonico (tramite il numero verde 803.164) con quello online (il telefono è molto più amico del computer per molti anziani). Tuttavia dai nostri dati emerge che oltre il 15% degli italiani che possiedono un Pin per operare sul sito web dell’Inps (www.inps.it) ha un’età superiore ai 65 anni. Insomma i meno giovani, già oggi, sono fortemente integrati nella vita attiva e tecnologica. L’evoluzione sociale, nel rapporto tra le generazioni, mostra una solidarietà e un’integrazione che molti non si aspettano.


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