“Balcani, Mediterraneo e Africa sono aree in cui ci giochiamo tra l’altro la sicurezza degli approvvigionamenti e una scommessa importante su una gestione europea del problema dei migranti. In quelle regioni l’Italia deve spendere non soltanto in investimenti, ma anche in una rinnovata attività diplomatica e culturale”. Kosovo-Serbia? “Non si tratta di essere equidistanti, ma equivicini”
“Potremmo utilizzare l’esperienza dei Balcani creando un gruppo di contatto ad hoc sull’Ucraina che riunisca i Paesi maggiormente impegnati come Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia più altri che possono e devono svolgere un ruolo, come la Turchia e altri”.
La proposta è affidata a Formiche.net dall’ambasciatore Riccardo Sessa, il più stretto fra i collaboratori di Giulio Andreotti, attualmente vice presidente della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale ed editorialista del Messaggero, già Ambasciatore d’Italia a Belgrado quando il governo D’Alema gli chiese nel 1999 di restare in sede sotto le bombe della Nato.
L’Italia ha tutte le carte in regola per esercitare il ruolo di primo piano sulla regione balcanica sia con riguardo alla crisi serbo-kosovara sia più in generale nell’ambito delle politiche di allargamento dell’Ue?
L’Italia ha una tradizione di rapporti molto speciali con tutti i Balcani ed in modo particolare con Serbia e Kosovo, dove si recheranno in visita i ministri Tajani e Crosetto. Serbia e Kosovo sono i due Paesi della regione, peraltro insieme alla Bosnia Erzegovina, che purtroppo presentano ancora delle problematiche all’attenzione della comunità internazionale e soprattutto dei Paesi europei con una storia di maggiore impegno in quell’area. Noi siamo presenti in Kosovo sin dalla fine dei bombardamenti della Nato del 1999 con un importante contingente militare e ci siamo schierati a Pec su richiesta del Patriarca Pavle a protezione dei monasteri serbi ma anche delle moschee. Poi siamo stati spesso dislocati nell’area di Kosovska-Mitrovica dove c’è una importante minoranza serba. Certamente noi, per tutto quello che abbiamo fatto durante quel difficile periodo, abbiamo le carte più che in regola per svolgere un ruolo costruttivo, pur con tutte le difficoltà congenite, storiche e religiose del rapporto tra la Serbia e il Kosovo.
Come l’Italia può riuscire, alla luce anche del patrimonio enorme acquisito agli occhi di serbi e kosovari in occasione di quelle vicende belliche, a dare un contributo, anche ricordando il ruolo svolto dai nostri soldati della KFOR?
Si tratta di un lavoro che richiede un lunghissimo tempo. Quando ho fatto riferimento alle difficoltà storiche e religiose congenite dei rapporti tra Serbia e Kosovo sono stato molto sfumato, tenuto conto che per la maggioranza dei serbi il Kosovo è ancora parte integrante della Serbia. Non ne riconoscono l’indipendenza, ma non per una mera questione politica. Il Kosovo per loro è parte integrante, nel vero senso della parola, della Serbia. Nel Kosovo c’è la sede della Chiesa ortodossa serba: un esponente nazionalista serbo quando io ero a Belgrado mi disse “voi occidentali ignorate che Pristina è la nostra Gerusalemme”. Questo avveniva poco più di 20 anni fa e oggi è un concetto ancora molto sentito. Certo ci sono le generazioni nuove succedute gli anni, con giovani che oggi hanno ruoli anche importanti nelle due realtà, ma questi vecchi ancoraggi storico-culturali sono ancora molto forti. Occorre un lavoro paziente che deve essere fatto nei confronti di una parte come dell’altra, sulla base di una fiducia e credibilità che pochi come noi possiamo vantare. Adesso in Serbia c’è un governo nazionalista e ciò non facilita il rapporto su una questione così dolorosa per loro come quella del Kosovo: però se c’è un Paese a mio avviso che può svolgere un ruolo di mediazione è sicuramente l’Italia. Qui non si tratta di essere equidistanti, ma equivicini. E noi lo siamo sempre stati.
Altro importante raggio d’azione dell’Italia il Mediterraneo, dove si intrecciano immigrazione, energia e geopolitica: quale la postura di Roma, anche alla luce del dopo Bali?
Le priorità della politica estera non possono essere stabilite da questo o da quel governo, poiché le priorità coincidono con gli interessi nazionali del Paese. Un nuovo governo può mettere l’accento su alcuni aspetti piuttosto che altri, ma è chiaro che gli interessi nazionali quelli sono e quelli restano e quelli devono essere curati. Tra questi per l’Italia sicuramente oltre alla regione balcanica l’area del Mediterraneo. Non a caso noi abbiamo sempre svolto o cercato di svolgere un ruolo significativo e originale in queste due regioni: è evidente che la proiezione naturale dell’Italia è proprio nel Mediterraneo, nel suo significato più allargato. Ciò spiega perché il Governo deve prestare una particolare attenzione lungo queste due direttrici. Il Ministro degli esteri Tajani lo ha detto in maniera molto efficace, sin dal suo insediamento alla Farnesina, quando ha messo l’accento su Balcani, Mediterraneo e Africa perché conosce molto bene il quadro internazionale e sa benissimo che in quelle aree noi ci giochiamo tra l’altro la sicurezza degli approvvigionamenti e una scommessa importante su una completa gestione europea del problema dei migranti. Per cui l’Italia deve spendere non soltanto in investimenti in quelle regioni, ma anche in una rinnovata attività diplomatica e culturale. Non siamo una potenza globale, ma in quelle aree possiamo svolgere un ruolo estremamente importante. Ciò significa guardare anche all’America Latina e all’Asia. Il premier Meloni e il ministro Tajani, e nel suo settore anche il ministro Crosetto, si stanno muovendo molto bene all’interno di una cornice di riferimento europea e atlantista, con quel pizzico di pragmatismo molto utile come è parso trapelare nell’incontro Meloni-Xi a Bali.
Parlando di Balcani e di fronti internazionali, non possiamo dimenticare che la priorità delle priorità è l’Ucraina: c’è una luce in fondo al tunnel?
Anche sull’Ucraina Meloni, Tajani e Crosetto sono stati sin dall’inizio chiarissimi ed è su quella linea che dobbiamo proseguire con l’obiettivo di raggiungere la cessazione della guerra e un’intesa giusta e duratura. Sappiamo tutti che è un percorso ancora lungo e allora, ripensando ai Balcani di cui abbiamo parlato, potremmo utilizzare l’esperienza in quella regione creando un gruppo di contatto ad hoc sull’Ucraina che riunisca i Paesi maggiormente impegnati come Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia più altri ancora che possono e devono svolgere un ruolo. Penso alla Turchia coinvolgendone altri ancora come Cina e India all’interno del quale identificare le tappe credibili di un percorso partendo dalla situazione sul terreno, individuando le formule più realistiche per quanto riguarda i territori occupati, la riduzione graduale delle sanzioni, fino poi, ma dopo un intenso lavoro diplomatico e quando tutto sarà chiarito, arrivare ad una conferenza internazionale per costruire una architettura di sicurezza europea. Non sarà un lavoro breve, ma anche noi potremo dare un contributo. I russi si sono detti pronti a negoziare, Zelensky ha addirittura lanciato delle sue proposte di pace, americani e russi si stanno parlando. Sono segnali positivi che lasciano sperare. È veramente tempo che la diplomazia prenda il posto delle armi.
@FDepalo