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Cosa ci insegna il missile caduto in Polonia sull’avventurismo russo

La gravità del fatto rimane. Come il possibile verificarsi di nuovi incidenti, se i comandanti della spedizione militare russa dovessero perseverare nella loro “strategia”. Ma oggi la Russia di Putin fa meno paura e il suo isolamento internazionale è pressoché totale. Basterà a fermare la furia distruttrice delle truppe di occupazione?

Il missile caduto in Polonia sarà stato pure il frutto di un rischio calcolato. Ma le relative valutazioni erano sbagliate. Troppo vicino ai confini di un Paese Nato quel lancio. E quindi l’eventualità che la relativa ogiva potesse sconfinare. O che la contraerea ucraina, nell’abbatterlo, potesse deviarne la traiettoria, con conseguenze inimmaginabili. Tanto più che quei missili, come hanno dimostrato le vicende belliche, sono strumenti di distruzione di massa tutt’altro che precisi. Al contrario vagano un po’ a casaccio. Fanno vittime innocenti, distruggono siti che non hanno alcun valore strategico. Ma non importa: visto che il loro prevalente obiettivo è quello di seminare il terrore tra la popolazione civile.

Avventurismo russo. Che, in quel caso, ha lasciato per un’intera notte il mondo con il fiato sospeso. Fortuna ha voluto che i grandi della terra fossero tutti a Bali per il G20. Circostanza che ha reso più facile i relativi contatti. E quindi poter concordare una risposta destinata a stoppare, fin dall’inizio, una possibile escalation. Al punto che il Cremlino stesso, secondo quanto riferisce l’agenzia Ria Novosti, è stato poi costretto a riconoscere come la “reazione” degli Usa sia stata “misurata”. Seppure in contrasto, ma la polemica non poteva mancare, con con “le dichiarazioni” di altri Paesi. La gravità del fatto, comunque, rimane. Come il possibile verificarsi di nuovi incidenti, se i comandanti della spedizione militare russa dovessero perseverare nella loro (si fa per dire) strategia.

Perché questo è il vero problema: quel brancolare nel buio, senza un indirizzo ed un obiettivo preciso. Limiti che si erano manifestati fin dall’inizio. Lo scorso 24 febbraio, data dell’invasione, si pensava che averla battezzata con il termine “operazione militare speciale” fosse solo una foglia di fico. Per non allarmare il popolo russo, evocando una situazione di guerra. Probabilmente in parte era anche così. Ma la spiegazione più vera è forse un’altra. L’intelligence e le alte sfere militari russe erano convinte della riuscita di un blitz, più che di una Blitzkrieg. Ossia una “guerra lampo”. Pensavano, in altre parole, di poter fare rapidamente il loro ingresso trionfale in Kiev, sostenuti da ali di popolo (la maggioranza russofila) festanti, che non aspettavano altro che ricongiungersi a Santa madre Russia. Del resto lo stesso Putin, nel corso della Conferenza di Monaco del 2007, aveva proclamato: “La vera sovranità dell’Ucraina è in partenariato con la Russia, perché noi siamo un solo popolo”.

La delusione, di fronte all’eroica resistenza del popolo ucraino, deve essere stata micidiale. Al punto da legittimare quei crimini contro l’umanità che, da Bucha in poi, hanno caratterizzato l’occupazione da parte dei russi: torture dei civili, eccidi di massa, stupri, fosse comuni, saccheggi, vandalismi delle strutture civili e via dicendo. In definitiva, quel triste armamentario che, in genere, è più caratteristico della guerra civile che non dello scontro tra due eserciti contrapposti. In una prima fase, tuttavia, si trattava di un’attività, per così dire, artigianale. Erano i singoli reparti, guidati da sadici ufficiali, a compiere quegli eccessi.

Negli ultimi mesi, invece, il terrorismo contro i civili è divenuto sistemico. Le truppe di occupazione che si ritirano oltre il fiume Dnepr, mentre si intensificano i colpi di artiglieria ed il lancio dei missili sulle infrastrutture civili. Centinaia di colpi in ogni parte del territorio, a prescindere da ogni considerazione di carattere strategico. Soprattutto centrali elettriche, ospedali, sistemi idrici, telecomunicazioni. Ed ecco allora tutte le metamorfosi della presunta “operazione militare speciale”. Il blitz originario che inizialmente si trasforma in guerra di trincea, costringendo Putin a richiamare i riservisti, per regredire, infine, nel tempo. Quei bombardamenti contro la popolazione civile somigliano, fin troppo, ai vecchi assedi del Medio evo. Quando la capitolazione era ottenuta solo dopo aver costretto alla fame e distrutto la fibra morale degli assediati.

Scelta non solo scellerata, ma del tutto incongrua rispetto alle analisi di partenza, che avevano motivato l’invasione. Non solo nel Donbass, ma in tutta l’Ucraina, i russi dovevano essere i pacificatori. Coloro cioè che, con la loro presenza, dovevano riuscire dove gli accordi di Minsk avevano fallito. Le tesi che lo stesso Putin aveva esposto a Silvio Berlusconi. E far sì che tra russofili e filo occidentali scoppiasse la pace. Sennonché il perseguimento di un simile obiettivo avrebbe dovuto richiedere una grande cura nel preservare il fronte interno. Garantire, cioè, ai propri simpatizzanti condizioni di vita ben diverse dalla distruzione sistematica delle loro case, scuole, ospedali, ed ogni altra infrastruttura necessaria alle comuni esigenze quotidiane.

L’uso indiscriminato di strumenti di morte, contro i civili, ha invece ottenuto l’effetto contrario. Ha creato nuove solidarietà tra quelle che, in precedenza, erano opposte fazioni. Ha dato alimento ad un sentimento nazionale, che ha rapidamente travolto vecchie contrapposizioni, e creato qualcosa di nuovo. Un processo, questo, che è stato descritto e cantato in tutte le lingue del mondo. È sempre l’idea di quel “volgo disperso” che “repente si desta” e “solleva la testa” fino a trasformarsi nell’armata che sconfiggerà l’invasore. O meglio i “tiranni”, come dice Alessandro Manzoni nel coro dell’Adelchi.

Forse non andrà proprio così. Alla fine un qualche compromesso si dovrà trovare. Ma una cosa è certa. Non potrà avvenire sulla testa di chi si è battuto contro quello che doveva essere uno degli eserciti più forti del mondo. Ma che si è dimostrato essere quella vecchia “tigre di carta”, di cui parlavano i rivoluzionari cinesi del bel tempo andato. Merito di un popolo in armi, con il suo eroismo. Oggi la Russia di Putin fa meno paura. Il suo isolamento internazionale è pressoché totale. La Cina è sempre più cauta. Il Brasile di Lula, non è più quello di Bolsonaro. L’India si è completamente smarcata. Si può pertanto dire che quel basamento politico – i Brics – su cui Putin contava, per poter esercitare il suo potere contro l’Occidente, oggi non esista più o quasi.

Basterà a fermare la furia distruttrice delle truppe di occupazione? Difficile fare previsioni. Anche volendo, non sarà facile dimenticare Groznyj ed Aleppo: le due città messe a ferro e fuoco dall’esercito della Federazione Russa, solo qualche anno fa. Quasi un tratto distintivo del modo di Mosca di condurre la guerra, che oggi si ritrova nelle strategie adottate nella terra di mezzo tra l’Asia e l’Europa. Oltretutto: con un pizzico di cattiveria in più. Dovuto alla falsa coscienza di chi si sente tradito. Erano giunti in soccorso, convinti che russi ed ucraini fossero un solo popolo, come aveva detto Putin, ed invece erano stati accolti con le armi fornite dall’Occidente. Un doppio tradimento. Che potrebbe giustificare qualsiasi reazione.

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