I lockdown hanno portato i cinesi alla saturazione. Le manifestazioni di protesta, pubbliche e in strada, iniziano a toccare corde delicate (Xi, il Partito, la libertà e la democrazia). A Pechino serve una risposta per non sembrare debole
“Vogliamo libertà, non tamponi!”, “vogliamo la democrazia, non la dittatura”, “buttiamo giù il CCP!”, “abbasso Xi Jinping”. Chi è sceso in strada a Shanghai per manifestare la propria rabbia contro le nuove misure restrittive anti-Covid — che il Partito Comunista Cinese (CCP) ha reintrodotto a fronte di un sensibile aumento dei contagi (oltre 39mila sabato 26 novembre, mai così tanti dichiarati) — era ben consapevole del risalto che avrebbe avuto. Altrettanto consapevole dei rischi (le autorità cinesi non intendono certo sembrare deboli), chi manifestava ha lanciato slogan a effetto.
Tra le consapevolezze in campo su questa vicenda — tutt’altro che nuova, tutt’altro che risolta — c’è anche quella del Partito/Stato, che ha messo in conto contestazioni popolari contro il governo. Le assorbe, le tollera per quanto possibile (ossia senza sembrarne impaurito). La situazione potrebbe cambiare però se si vanno a intaccare aspetti più profondi della narrazione politica nevralgica. Evocare la libertà e la democrazia, in sostanza un modello opposto a quello del Partito stesso, può diventare un rischio.
Il mondo guarda quei video, ascolta quegli slogan. Gli investitori fanno le proprie valutazioni sul livello di affidabilità e resilienza cinese. Gli stessi cittadini della Cina — sebbene bombardati costantemente dalla propaganda — potrebbero accedervi. La questione delle misure restrittive, i lockdown, rischia di diventare un problema di tenuta sociale? La Cina soffre ciò che il mondo occidentale ha sofferto i mesi più bui della pandemia.
E questo diventa una problema nel problema. Per lungo tempo Pechino ha propagandato la severità delle misure restrittive anche come forma di dimostrazione di maggiore efficienza rispetto al resto del mondo. Serviva per mandare il messaggio contro chi chiamava il Covid “China Virus” — e incolpava le autorità di Wuhan per la diffusione iniziale della pandemia, dimostrando come il Partito non era stato in grado di gestire le proprie disconnessioni interne. Serviva — al di là dell’aspetto poi politico — anche per mettere sotto controllo la situazione sanitaria: la Cina non ha vaccini efficaci e i lockdown sono un modo per non ingolfare gli ospedali.
A quasi tre anni dall’inizio della pandemia, la nuova ondata di rabbia che pervade Shanghai dimostra che di fatto la Cina non è riuscita a gestire la pandemia. L’isolamento imposto dal leader Xi Jinping dimostra invece l’incapacità cinese di portare avanti scelte autarchiche — e questo è un ulteriore problema nel problema se si considera il valore che Xi ha dato nella sua strategia generale al raggiungimento di varie forme e livelli di autosufficienza.
Non bastasse, l’incidente di Urumqui, capitale della complessa regione dello Xinjiang, è stato un’ulteriore causa di rabbia. I funzionari cittadini hanno negato che le vittime (dieci) dell’incendio esploso giovedì siano state legate al fatto che parte del grattacielo fosse chiuso per le misure anti-Covid. Tuttavia non è bastato. Molti dei 4 milioni di abitanti di Urumqui sono stati sottoposti a una delle più lunghe serrate della Cina, con il divieto di uscire di casa per 100 giorni. E mentre sono in corso parziali allentamenti, l’esasperazione ha raggiunto il livello di saturazione, è bastato poco a far dilagare il dubbio, la rabbia. E — come nel caso degli slogan di Shanghai — avvelenare la situazione è stato facile.
A Shanghai, la città più popolosa della Cina, i residenti si sono riuniti sabato sera in Wulumuqi Road — che prende il nome da Urumqi — per una veglia a lume di candela che si è trasformata in una protesta nelle prime ore di oggi, domenica 27 novembre. La polizia ha cercato a tratti di disperdere la folla, ma forzare la mano sarebbe diventato un’ulteriore problema.
Mentre il segretario del Partito Comunista dello Xinjiang, Ma Xingrui, aveva invitato la regione a intensificare la manutenzione della sicurezza e a frenare il “rifiuto illegale e violento delle misure di prevenzione Covid”, l’incendio ha alimentato un’ondata di disobbedienza civile senza precedenti nella Cina continentale da quando Xi Jinping ha assunto il potere un decennio fa.
La protesta pubblica diffusa è estremamente rara in Cina, dove lo spazio per il dissenso è stato praticamente eliminato. È parte della strategia di controllo strutturata da Xi, che ha innalzato un approccio olistico alla sicurezza, usata come strumento per imbullonare il proprio potere. La frustrazione ribolle, esce dai social (dove viene costantemente obliterata dalla censura) e scende in strada, sfidando le ritorsioni delle autorità a poco più di un mese dal terzo mandato di Xi alla guida del Partito Comunista Cinese.
Il Partito va sotto pressione, e con esso Xi e la sua leadership, incardinata a un processo di unicità storica (quel terzo mandato) non ancora assorbito da alcuni angoli di Paese ed élite. Xi dovrà dare una risposta, anche perché finora la gestione della politica Zero Covid è stata anche oggetto di vanto, e promozioni nei gangli del potere. Basta pensare che il nuovo premier voluto dal leader, Li Qiang, già segretario del CCP a Shanghai, vantava sul curriculum il non aver allentato le misure draconiane volute da Xi (all’inizio dell’anno, Li ha imposto un lockdown totale ai 25 milioni di abitanti di Shanghai a fronte di un aumento di casi minimo, suscitando diverse polemiche, ma attenendosi alla perfezione alla policy decisa da Xi).
È possibile che la risposta sarà la repressione, con l’arresto e l’incriminazione di alcuni manifestanti accusati di essere sobillatori contro la sicurezza e il bene della nazione. È molto probabile che non vedremo la repressione sanguinosa di Piazza Tienanmen: i disordini sono molto lontani da quelli del 1989 d’altronde. Il sentimento popolare è movimentato, ma per ora controllabile. Molto dipenderà anche dalla tenuta dell’élite. Cavalcare quanto sta succedendo a favore di spaccature tra le gerarchie del Partito non è ancora conveniente per nessuno e finché l’apparato di sicurezza rimarrà dalla parte di Xi, non correrà alcun rischio significativo per la sua presa sul potere.
Per l’economia e per il sistema sanitario cinese le prossime settimane potrebbero essere le peggiori per la Cina dalla fase iniziale della pandemia. E d’altronde era una condizione che era logico prevedere. Pechino da qualche settimana ha scelto un minimo allentamento delle misure restrittive — sempre per gestire la rabbia crescente — e questo ha chiaramente aumentato la circolazione del virus. L’aumento dei casi è chiara e diretta conseguenza. Qualcosa che da tempo è contemplato e accettato ovunque nel mondo.
I cittadini cinesi sono consapevoli della loro unicità, sentono il comportamento del Partito e del governo (centrale e locale) come una richiesta eccessiva e immotivata. Hanno subito per oltre due anni indottrinamenti sulle capacità di gestione del Covid con “caratteristiche cinesi” e adesso non accettano più il prolungamento di questa ulteriore compressione di libertà. Anche perché l’altra parte del contratto sociale stretto con le proprie leadership, l’aumento della prosperità, stenta a venire anche — o proprio — a causa dei lockdown.