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Cop27, se il clima è zona franca geopolitica. Il bilancio di Violetti (Onu)

Daniele Violetti

In questa intervista esclusiva, il senior director Onu per il cambiamento climatico ripercorre la Conferenza di Sharm el Sheikh e ne soppesa i risultati. L’abbandono degli idrocarburi è ancora un miraggio, ma si procede sul fronte della cooperazione internazionale e del supporto ai Paesi emergenti. Conversazione a tutto tondo su Cina, Russia, Usa, il ruolo di politica e mercati, e la corsa alla decarbonizzazione

Nonostante i tentativi di una moltitudine di nazioni, il testo finale della Conferenza Onu sul clima di Sharm el Sheikh (Cop27) non conteneva l’impegno ad abbandonare i combustibili fossili – misura vitale, a detta degli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), per contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi. Un obiettivo fissato a Parigi nel 2015, che sembra scivolare via. Tuttavia, per la prima volta, i membri Onu si sono impegnati a costruire un fondo per compensare gli Stati colpiti dalle calamità naturali derivanti dai cambiamenti climatici. Per tirare le somme Formiche.net ha raggiunto Daniele Violetti, senior director all’Organizzazione delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico (Unfccc).

Questo loss and damage fund è il risultato più visibile della Cop27. Come commenta la misura?

Dall’inizio dei lavori della Conferenza si parlava di come gestire l’emergenza derivante dall’impatto del cambiamento climatico. I Paesi più vulnerabili hanno sempre cercato di avere uno strumento che potesse dar loro la certezza di avere accesso a risorse in caso di emergenza. È una decisione politica, il fondo non esiste ancora; ma è necessario per ricostruire la fiducia tra le parti, che è un po’ logorata. Molti Paesi emergenti volevano bilanciare i risultati dell’ultima Conferenza (la Cop26 di Glasgow del 2021, ndr) con qualcosa di tangibile per loro. Al di là delle aspettative, penso che già il fatto che il fondo verrà stabilito sia importantissimo. La decisione è stata presa, è stato creata un Comitato di transizione per realizzarlo. Fondamentale l’impegno dell’Unione europea, come anche il sì degli Stati Uniti nell’aderire.

Ora c’è il lavoro tecnico da fare: stabilire chi fornirà i fondi, dove dirigerli, in quali condizioni. Che forma prenderà questo meccanismo?

È ancora troppo presto per dirlo. Potrebbe essere un fondo unico, o una somma di diversi fondi anche a carattere regionale. Si è discusso molto sull’importanza di rendere concertate e coerenti le varie fonti di supporto che sono o saranno rese disponibili ai paesi vulnerabili. In questo contesto, avere un fondo unico e centralizzato potrebbe essere uno svantaggio. Prendiamo l’esempio del Pakistan, colpito da alluvioni qualche mese fa: se i milioni a disposizione fossero stati allocati lì, e fosse capitata un’altra calamità altrove, rischiavano di non esserci più fondi. Dunque l’approccio multiplo o regionale potrebbe essere più strategico per limitare l’uso totale.

E ci saranno abbastanza risorse?

Va riscontrato che a Sharm sono state allocate diverse centinaia di milioni di euro nei fondi già esistenti. Certo, è sempre una goccia nell’oceano; ma occorre anche notare che i soldi sono arrivati in un momento così difficile dal punto di vista geopolitico, dove di solito si tende a intervenire sulle emergenze. È importante sottolineare che la decisione sul fondo loss and damage è stata presa in un contesto di forte consapevolezza del fatto che gli impatti da cambiamento climatico richiederanno talmente tante risorse che i flussi dedicati attuali non possono bastare – da cui l’esortazione della Cop27 a riformare gli istituti finanziari internazionali e multilaterali.

Nelle ultime ore della conferenza i partecipanti hanno battagliato furiosamente per raggiungere un accordo sull’abbandono dei combustibili fossili. Senza successo. Entrambe le parti si accusano di ipocrisia: certe nazioni emergenti dicono che lo avrebbero fatto al netto di più finanziamenti, alcune nazioni sviluppate ne accusano altre di aver inibito gli sforzi.

Penso che i tempi a Sharm non fossero maturi per una decisione concordata di questo tipo. Non dimentichiamoci del momento che stiamo vivendo: la cosa più importante è che non ci sia stata una regressione rispetto a Glasgow. Per chi non è dentro il processo non è molto visibile, ma aver mantenuto l’impegno di tenere l’obiettivo 1,5 gradi a portata è di per sé un successo, come anche la decisione di allineare continuamente gli NDCs (contributi nazionali) agli accordi di Parigi. Vero, siamo rimasti a quel livello lì. E bisogna essere onesti, non è lo stadio ideale. Ma poteva andare molto peggio: la base è stata mantenuta, gli obiettivi di Parigi sono rimasti nel testo ufficiale (non era scontato, entrando alla Cop). Rimangono le ambizioni per un abbandono dei combustibili fossili, che è la strada da perseguire, e l’impegno ad abbandonare il carbone. E poi vorrei sottolineare l’importanza di aver avuto oltre cento capi di Stato nei primi due giorni, che hanno ribadito che il cambiamento climatico è un problema globale da risolvere a livello globale nell’ambito di un multilateralismo efficace.

Parole che richiamano l’ordine globale secondo la Cina, il maggior emettitore di CO2 al mondo, che insiste nel mantenere obiettivi di decarbonizzazione meno stringenti della maggior parte dei Paesi. Che segnali sono arrivati da Pechino?

Anzitutto, nonostante le questioni politiche esterne al cambiamento climatico, Cina e Stati Uniti hanno lavorato assieme a Sharm. Questo fa parte del multilateralismo. L’obiettivo di creare uno spazio politico sicuro, tenendo al di fuori il resto, ha funzionato, ed è fondamentale mantenerli a discutere di lotta al cambiamento climatico in maniera costruttiva – come lo fu per Parigi, Glasgow, e come lo sarà per il futuro. In seconda battuta, a livello domestico la Cina sta innegabilmente facendo parecchio per decarbonizzare. È chiaro che manca una data esatta per raggiungere il picco di emissioni, e questo è il problema globale: non tutti sono d’accordo per raggiungerlo nel 2025. Quella sarebbe già la risposta più forte per rispondere all’Ipcc e alla scienza. Un tema complesso, non lo nego, ma dobbiamo guardare la parte piena del bicchiere. Altrimenti si continua a erodere la fiducia reciproca, cosa che non aiuta nessuno.

Sotto Donald Trump, gli Usa – maggiori emettitori pro capite – uscirono dagli accordi di Parigi, per poi rientrarci con Joe Biden. Crede che un’eventuale vittoria dei repubblicani nel 2024 possa mettere in pericolo i lavori in corso?

È difficile dirlo, soprattutto non sapendo chi sarà il candidato. Ma anche negli anni dell’amministrazione Trump, gli Usa sono comunque rimasti partner costruttivi, o quantomeno non hanno ostacolato il progresso. Sono stati anni di risultati importanti. Il livello di ambizioni domestiche potrebbe risentire di una leadership repubblicana, ma è qui che entra in gioco (come allora) il livello subnazionale e il settore privato. Stati individuali come la California hanno tenuto alto il livello di ambizione domestica: quello fa la differenza nelle emissioni. Al giorno d’oggi il settore privato è fortemente allineato ed è difficile cambiare il senso di marcia, anche se si insedia un’amministrazione particolarmente negativa. È più una battaglia a livello domestico: internazionalmente i passi sono irreversibili. Quello che manca a livello globale è il senso di urgenza nel rispondere alla scienza in questo decennio, nel 2030 dobbiamo essere a uno stadio completamente diverso. E mancano pochi anni.

E come si è comportata la Russia?

È valso il concetto dello spazio politico sicuro anche per la Federazione Russa, che ha contribuito, portando le sue istanze, intervenendo sulle tematiche specifiche e sulle discussioni tecniche. Alla fine il consenso c’è stato dappertutto. Fortunatamente, anche nelle dichiarazioni durante la plenaria si è riusciti a tenere fuori le tragiche vicende quotidiane e concentrarsi sulle sfide climatiche in un clima molto neutrale.

La Cop27 si è svolta in Egitto, la Cop28 dell’anno prossimo sarà ospitata dagli Emirati Arabi Uniti. Entrambi grandi produttori di idrocarburi, cosa che secondo alcuni avversa gli sforzi per ridurne l’utilizzo.

Se ci basiamo sull’Egitto possiamo stare abbastanza sereni, fermo restando che le priorità e la visione della presidenza emiratina sono ancora da vedere. Sappiamo che ad Abu Dhabi il livello di ambizione per la trasformazione energetica è alto, sono veramente all’avanguardia. Arriveremo a una conclusione definitiva per l’abbandono degli idrocarburi? Non lo so, dipende da tutti, dal livello di engagement politico. E dipende dalla situazione globale, se non dovesse migliorare – come speriamo che succeda, dato che oggi è abbastanza tragica – sarà difficile. Io sono abbastanza positivo sul ruolo degli Emirati, ho delle buone aspettative. E il loro interesse a voler essere leader potrebbe darci sorprese interessanti.

L’Egitto ha definito il gas naturale il combustibile perfetto per la transizione.

Penso che serva guardare all’evoluzione del mix energetico e non fossilizzarsi su un tipo di combustibile solo. Il gas è un fossile e dunque non risolve il problema a livello di emissioni, ma può aiutare – specie nei Paesi in via di sviluppo – la spinta verso l’eliminazione totale del carbone, che a questo punto della nostra storia globale non ha più ragione d’esistere. Dobbiamo definire obiettivi chiari e stabilire una data per il picco di emissioni. Poi dobbiamo arrivare al prezzo delle emissioni globale, per internalizzare tutte le esternalità. Esistono questioni importanti anche per alcuni Paesi in via di sviluppo che richiedono alta intensità energetica: queste possono essere soluzioni che aiutano, tenendo in mente la transizione come obiettivo finale. Un altro risultato importante di Sharm è il programma per una transizione giusta ed equilibrata: un primato frutto dell’iniziativa egiziana, se ne parla tanto sia nei Paesi emergenti che in quelli sviluppati.

Martin Wolf sul Financial Times ha detto che il mercato può finalizzare la transizione, ma non abbastanza velocemente.

Purtroppo gli impatti del cambiamento climatico sono già visibili. Anche recentemente, in questi giorni, nel nostro Paese. Sono oltre il livello di soglia dell’occasionalità e della fatalità, sono talmente frequenti, consistenti e visibili, che la resistenza a quello che ci dice la scienza emerge solo con l’intenzione di fare lobbying in senso contrario. Ma se noi superiamo il momento di svolta, in termini di supporto da parte di opinione pubblica e attività economiche, penso che ci si possa muovere in maniera molto più accelerata di quanto non sia visibile al momento. Un esempio classico è quello del vaccino Covid, o il conflitto in Ucraina: emergenze molto serie e negative che hanno provocato una risposta politico-economica veloce e possente. L’importante, dal mio punto di vista, è continuare l’opera di sensibilizzazione: è quello che guida la politica, che a sua volta può catalizzare l’azione del mercato.

Nel settore inizia a farsi strada l’idea che contenere il riscaldamento entro 1,5 gradi sia ormai impossibile. Conseguentemente, si investe sempre più nell’adattamento.

Penso che l’obiettivo di 1,5 gradi sia ancora a portata. Ora ci serve raggiungere e superare il momento di picco delle emissioni globali (e sottolineo globali) perché se inizia la discesa si possono innescare ulteriori movimenti importanti, anche a livello economico, che possono favorire l’accelerazione. Se avremo questa stessa conversazione dopo la Cop del 2025, allora sarò d’accordo con l’idea che l’obiettivo 1,5 gradi sia obsoleto. Per quanto riguarda gli investimenti in crescita nel settore dell’adattamento, sono semplicemente necessari. Anche dovuti, ritengo, verso i Paesi più vulnerabili all’impatto del cambiamento climatico: si tratta di salvare vite. Fermo restando che gli investimenti in adattamento non devono andare a scapito di quelli per la mitigazione, che rimane l’obiettivo ultimo.

E crede, in ultima analisi, che la Cop stia adempiendo al suo ruolo?

È importante sottolineare la crescita continua del coinvolgimento giovanile nel nostro processo: una cosa giusta, che farà la differenza. Ho visto, in questi ultimi anni, che i giovani sono passati da partecipazioni marginali in qualche evento a incidere sui testi ufficiali. E ho visto la Cop diventare la più grande conferenza mai organizzata dall’Onu: quest’anno abbiamo avuto quasi 40.000 partecipanti, di cui 2.000 giornalisti. La piattaforma, come dimostrazione dell’efficacia di processi multilaterali, di per sé funziona: per esempio, le tematiche che fino a poco tempo fa non erano così centrali – giovani, popolazioni indigene, parità di genere – hanno avuto un ruolo importantissimo. Il risultato: nel testo finale del Piano di implementazione di Sharm si parla di “perseguire un approccio all’educazione che promuova un cambiamento di stile di vita, promuovendo al contempo modelli di sviluppo e sostenibilità basati su cura, comunità e cooperazione”. In sintesi? C’è speranza.

Immagine: EnviroNews Nigeria


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