Garret Martin, condirettore del Transatlantic Policy Center, spiega che la guerra in Ucraina ha dato una “scossa positiva” alle relazioni transatlantiche. Ma rimangono questioni divisive come la fine del conflitto e la Cina. Commenta il Trade and technology council, che si riunisce oggi. E a Meloni dice: “Se continuerà a seguire quanto fatto dal suo predecessore, il pragmatismo di Washington rimarrà tale”. Mentre Orbán…
“La guerra in Ucraina ha rappresentato una vera e propria scossa positiva alle relazioni transatlantiche, rendendo semplice dimenticare che il primo anno dell’amministrazione Biden è stato segnato da alti e bassi”. Lo spiega il professor Garret Martin, condirettore del Transatlantic Policy Center presso l’American University School of International Service di Washington, a Formiche.net.
In che modo?
Ha dato un senso di comunanza di intenti nel sostenere l’Ucraina e nel contrastare la Russia. Le consultazioni si sono notevolmente intensificate, e l’ho sentito dire da tanti interlocutori diversi e in molti contesti diversi. Tuttavia, non sottovaluterei alcune sfide e differenze di valutazione significative, che non saranno risolte facilmente e potrebbero continuare a creare tensioni nel prossimo futuro.
Quali, per esempio?
L’epilogo della guerra in Ucraina sarà una questione particolarmente difficile, perché le divergenze con la Russia esistevano già prima della guerra, sia a livello transatlantico sia all’interno dell’Europa stessa. Ciò che può essere accordo accettabile e il futuro delle relazioni con la Russia dopo il conflitto saranno argomenti difficili da affrontare. C’è poi il tema dei costi e degli impatti della guerra, con gli europei più esposti a causa della geografia e della dipendenza energetica dalla Russia. In terzo luogo, è vero che sulla Cina c’è stata una convergenza negli ultimi due anni, con gli europei che si stanno muovendo verso una linea più dura. Ma ci sono ancora delle differenze di valutazione tra Washington e i suoi alleati europei quando si tratta di affrontare Pechino.
Nei giorni scorsi Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha dichiarato che “la grande maggioranza dei Paesi dell’Indo-Pacifico e dell’Europa non vuole essere intrappolata in una scelta impossibile” tra le due superpotenze, non vuole “un mondo diviso in due campi”. Come leggere queste parole?
Non credo che dal punto di vista europeo ci sia una sorta di equidistanza tra Cina e Stati Uniti. Credo che ciò a cui allude Borrell è che le azioni unilaterali da parte degli Stati Uniti stiano a volte forzando la mano agli europei. Un buon esempio è stato il recente divieto degli Stati Uniti di esportare semiconduttori in Cina, con implicazioni per le aziende europee senza che l’Unione europea abbia voce in capitolo. Il timore è che gli europei possano sentirsi costretti a certe scelte politiche decise essenzialmente a Washington. Inoltre, anche in questo caso c’è la questione dei costi di un eventuale decoupling economico della Cina, che sarebbero più alti per gli europei. Infine, dobbiamo ricordare che il ruolo di Borrell è quello di rappresentare l’opinione di tutti gli Stati membri dell’Unione europea. In generale c’è stato un inasprimento della posizione nei confronti della Cina, più realismo e maggior preoccupazioni. Ma, come detto prima, questo non significa che non ci siano più differenze all’interno dell’Unione europea su come rispondere alla Cina.
Borrell ha citato anche i Paesi dell’Indo-Pacifico per questa “scelta impossibile”. Perché?
Credo che la “scelta impossibile” sia probabilmente legata ai rapporti in termini geografici, economici di catene di approvvigionamento con la Cina che riguarda sia l’Europa sia l’Indo-Pacifico. Penso che la preoccupazione sia che in caso di decoupling totale o di scenario da Guerra Fredda, i costi sarebbero più significativi per l’Indo-Pacifico e l’Europa che per gli Stati Uniti.
Come valuta la visita della scorsa settimana del presidente del Consiglio europeo Charles Michel in Cina per incontrare il leader Xi Jinping?
Il tempismo è stato interessante, visto che il viaggio si è tenuto nei giorni di alcune proteste in diverse grandi città della Cina contro le restrizioni per il Covid. La mia sensazione è che da questo viaggio non uscirà molto, ancora una volta. Perché, di nuovo, non c’è e proprio consenso all’interno dell’Unione europea su come rispondere alla Cina. Abbiamo visto anche il cancelliere tedesco Scholz fare visita a Xi. Sappiamo che il presidente francese Emmanuel Macron sta preparando un viaggio. Credo che ci sia il desiderio di mantenere almeno buoni canali di comunicazione con la Cina, anche nel contesto della guerra in Ucraina per vedere se Pechino pul avere un’influenza positiva su Vladimir Putin e sulla Russia. Ma non mi aspetto che queste visite abbiano un impatto significativo.
Oggi si riunisce per la terza volta il Trade and Technology Council tra Stati Uniti e Unione europea. Le divergenze su questi temi rischiano di andare a beneficio della Cina?
È possibile. Credo che gli Stati Uniti si siano avvicinati all’idea sperando di sfruttarla come strumento anti Cina. Dal punto di vista europeo, invece, è stata avanzata all’inizio dell’amministrazione di Biden come un modo per cercare di riparare i rapporti transatlantici. Una delle difficoltà intrinseche del Ttc è che si basa su differenze strategiche o di priorità. Una seconda difficoltà è che alcune di queste differenze sulla tecnologia e sulla politica tecnologica, sulla regolamentazione delle Big Tech per esempio, difficilmente verranno risolte, qualsiasi sia il formato, il Ttc o un altro. In terzo luogo, sia gli Stati Uniti sia i Paesi europei stanno affrontando grandi pressioni interne a causa delle difficoltà economiche, dell’inflazione e dei costi dell’energia che salgono. La tendenza a voler dare priorità alle questioni interne a volte crea vere e proprie tensioni con gli alleati, che non sono facili da risolvere.
La scorsa settimana si sono tenuti i dialoghi di alto livello tra Stati Uniti e Unione europea su Cina e Indo-Pacifico. Dopo quel confronto con l’omologo europeo, l’ambasciatore Stefano Sannino, questa settimana Wendy Sherman, vicesegretaria di Stato americana, sarà in Europa, anche in Italia e in Vaticano. Perché la Santa Sede è importante per gli Stati Uniti?
Ha ancora una certa importanza per una serie di ragioni. In primo luogo la Santa Sede ha un consolidato corpo diplomatico in tutto il mondo. In passato, per esempio, ha avuto un ruolo importante nel facilitare la normalizzazione delle relazioni tra gli Stati Unti e Cuba sotto l’amministrazione Obama. In secondo luogo, ci sono alcuni temi specifici su cui c’è una convergenza di interessi: l’ambiente, i diritti umani, la libertà religiosa, il traffico di esseri umani, per esempio. E c’è anche una certa convergenza di interessi per quanto riguarda la politica interna: gli Stati Uniti hanno ancora una grande popolazione cattolica e mantenere buoni legami con la Santa Sede è importante.
Sherman vedrà a Roma l’ambasciate Francesco Talò, consigliere diplomatico di Palazzo Chigi. La distanza politica tra il democratico Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, e la conservatrice Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, possa mettere a rischio il rapporto storico i due Paesi?
Il presidente Biden ha fatto della sfida tra democrazie e autocrazie, e della rivitalizzazione delle prime, una parte importante del suo programma, filo conduttore di tutta la sua amministrazione. Detto questo, credo che Biden sia diventato nel tempo una figura piuttosto pragmatica. Quindi, se il governo Meloni continuerà a seguire quanto fatto dal suo predecessore – un forte impegno nelle relazioni transatlantiche, nel sostenere l’Ucraina e nel mitigare qualsiasi tipo di indulgenza nei confronti di Putin o le opinioni espresse in passato da Matteo Salvini – penso che l’amministrazione Biden probabilmente guarderebbe altrove. A patto che le sue azioni a livello nazionale non erodano in modo eclatante lo stato di diritto. Nel caso dell’Ungheria, gli sforzi di Viktor Orbán per mostrarsi al fianco di Donald Trump lo hanno reso una figura poco gradita a Washington sotto l’amministrazione Biden. Penso che, a meno che Giorgia Meloni non venga vista come una figura fortemente anti-democratica, il pragmatismo continuerà a regnare a Washington.