Taiwan è sotto scacco cinese? Per il Pentagono, Pechino pensa ancora all’invasione militare o a un potente attacco missilistico. Con i rischi che riguardano le fabbriche di chip, e Washington che pianifica di proteggerle in vari modi
Il rapporto annuale del Pentagono sulle capacità militari cinesi uscito nei giorni scorsi è ricco di spunti e dedica particolare attenzione — chiaramente — a Taiwan.
Da una delle prime mappe è subito evidente che la Cina ha capacità di attacco missilistico completa, con l’isola che è all’interno del raggio di azione di un’ampia serie di vettori balistici e non. Se questo è tutt’altro che sorprendente, ciò che è più inquietante è il numero di missili che Pechino potrebbe impiegare se volesse attaccare in modo distruttivo.
Dalla tabella si evince che, secondo il Pentagono, la Cina potrebbe avere facilmente a disposizione più di 2500 missili di vario genere e capacità — molti dei quali piazzati su lanciatori stradali, dunque difficili da individuare preventivamente — da schierare contro quella che per la dottrina del Partito Comunista Cinese è una provincia ribelle da riannettere e che nel pensiero del leader Xi Jinping è un pallino dal valore personale (Xi ha trascorsi propri e famigliari legati al dossier taiwanese) e strategico (per l’identità della Cina, per ottenere il controllo su una potenza economica che fa da swing producer nel più cruciale dei settori, quello dei chip).
Probabilmente non sono casuali i rumor di questi giorni a proposito di una nuova fornitura da 100 Patriot PAC-3 Missile Segment Enhancement (MSE) e le relative attrezzature che gli Stati Uniti intendono far arrivare a Taiwan. Stando a una nota del dipartimento di Stato ottenuta dalla Bloomberg, la proposta è stata fatta in base alle disposizioni di una vendita autorizzata nel 2010 e avrebbe un valore totale di circa 2,81 miliardi di dollari. Oltre ai nuovi missili, la vendita includerebbe anche kit di modifica del lanciatore M903, proiettili da addestramento e aggiornamenti del software per adattarsi ai nuovi missili. Il PAC-3 MSE, sviluppato da Lockheed Martin, ha un motore a razzo più potente e alette più grandi, dandogli spinta aggiuntiva e una migliore manovrabilità “contro missili balistici e da crociera più veloci e sofisticati”, secondo Army Technology.
Non è nemmeno casuale che insieme al report del Pentagono sulle capacità militari cinesi sia arrivata una sorta di visita di Stato del presidente Joe Biden alla sede in Arizona di Tsmc, azienda taiwanese leader globale dei chip, che gli Usa vorrebbero rendere sempre più americana (c’è già un piano per un ampliamento e forse per l’ampliamento dell’ampliamento).
La partita è complessa. Dalla crisi missilistica dello Stretto di Taiwan del 1995-1996, la probabilità di errore circolare (Cep) o la capacità di colpire con precisione di questi missili è migliorata in modo significativo, rendendoli molto più letali e con meno probabilità di causare morti tra i civili — quindi più allettanti da usare in quanto potrebbero ridurre la ridondanza mediatica degli attacchi.
Resta tuttavia da capire se la Cina abbia realmente intenzione di colpire pesantemente Taiwan. Il rischio di una attacco devastante è extra militare, perché andrebbe comunque a colpire l’immagine pubblica internazionale di Xi, a ledere interessi economici cinesi, a complicare il processo di assorbimento che per il Partito/Stato resta ancora la via privilegiata per annettere Taipei. Come potrebbero i taiwanesi accettare di entrare a far parte della Repubblica popolare cinese e cedere la propria identità e sovranità a un padrone invasore e sanguinario?
C’è comunque l’opzione che gli americani chiamano “bloody nose”: lanciare un assalto potentissimo — in cui le batterie missilistiche e aeree in generale avrebbero il ruolo da protagonista — tale da lasciare stordito, come un pugile col naso rotto e sanguinante, Taipei. Da lì innescare un processo di assoggettazione rapido per manifesta inferiorità. Non è detto che sia la via migliore, tutt’altro che certa la riuscita, ma è nell’ottica delle cose che parte del pensiero militare — sia americano che cinese — ruoti attorno a certi piani/eventualità.
Secondo il Pentagono, Taiwan sta anche (chiaramente) valutando altri scenari, continuando ad addestrare le unità di assalto anfibio e missioni expeditionary. Questa delle scarse capacità anfibie è una nota dolente segnalata più volte dalla difesa statunitense riguardo all’Esercito di liberazione popolare cinese (Pla) su cui è altrettanto noto che Pechino sta correndo ai ripari attraverso la formazione del proprio personale (anche tramite l’uso dei RoRo) e la produzione di assetti moderni e funzionali.
Da Arlington arriva anche un’informazione in più sulla catena di command&control di un’eventuale invasione, che sarà affidata al Comando del Teatro Orientale, il Dōngbù zhànqū. Anche questo non è sorprendente, ma l’analisi della Difesa americana è una conferma interessante. Perché frutto di info di intelligence di vario genere; perché resa pubblica per mandare un messaggio alla Cina sulle capacità di Washington di raccogliere dati sulle strategie cinesi.
In definitiva, il Pentagono valuta che la Cina continua a segnalare interesse nei confronti di un’azione militare contro Taiwan, avendo anche nuove e migliorate capacità di azione in tutti i domini. Davanti a questo diventano importanti le considerazioni scettiche di Elbridge Colby, architetto della Strategia per la difesa nazionale dell’amministrazione Trump del 2018 con un lungo trascorso al Pentagono e nell’intelligence, falco anti-cinese e sempre attentissimo sulla postura statunitense in certi dossier come quello taiwanese.
Per Colby, che cerca con certe dichiarazioni di scuotere un po’ gli animi, gli Stati Uniti rischiano di finire “schiacciati” in una guerra con la Cina a cavallo dello stretto, che sarebbe qualcosa di paragonabile alla Seconda guerra mondiale, dice. I falchi repubblicani sembrano essere giunti alla stessa conclusione: “Se la Cina prende Taiwan e prende quelle fabbriche intatte, cosa che non credo gli Stati Uniti permetteremmo mai, avrebbe un monopolio sui chip come l’Opec ha un monopolio, o anche più di come l’Opec ha un monopolio sul petrolio”, ha spiegato l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump Robert O’Brien a una conferenza presso la Richard Nixon Foundation il 10 novembre.