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In Italia non c’è spazio per la cancel culture

A Sant’Ambrogio, sotto l’accorta regia di Mattarella, è andata in scena ben più che un’opera, ma una brillante e raffinata operazione di diplomazia culturale. La cultura come ponte di un dialogo con la Russia del futuro, una volta che questa leadership non sarà più al comando. La guerra in Ucraina ci riguarda senz’altro, i secolari contenziosi tra i vicini della Russia molto meno. L’opinione di Dario Quintavalle

L’inaugurazione della stagione al Teatro alla Scala di Milano il 7 dicembre rappresenta tradizionalmente l’evento sociale e culturale più importante dell’anno, e così offre una occasione di visibilità per avanzare proteste di ogni sorta.

Non ha resistito alla tentazione neanche il console di Ucraina a Milano, in polemica sull’opportunità di rappresentare un’opera russa – il Boris Godunov, capolavoro di Modest Mussorgskij. La sua motivazione è che “siccome la cultura viene utilizzata dalla Federazione Russa per dare peso all’asserzione della sua grandezza e potenza, assecondare la sua propagazione (sic!) non può che nutrire l’immagine del regime ivi vigente al giorno d’oggi, e dunque, per estensione, le sue ambizioni scellerate e i suoi innumerevoli crimini”. Da qui l’invito a “rivedere il programma della stagione al fine di bloccare eventuali elementi propagandistici”.

Naturalmente il Teatro alla Scala ha tirato dritto, e la Prima è stata il consueto successo. Ma è stata anche un evento politico, forse sottovalutato. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto dalle ovazioni degli astanti, ha dichiarato, riferendosi alla polemica: “Sono posizioni che non condivido sia sul piano culturale sia su quello politico. La grande cultura russa è parte integrante della cultura europea. È un elemento che non si può cancellare. Mentre la responsabilità della guerra va attribuita al governo di quel Paese non certo al popolo russo o alla sua cultura”. Dal custode della Costituzione (art. 33: “L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento”) non potevamo aspettarci niente di meno.

Ma egli aveva a fianco Ursula von der Leyen, prima presidente della Commissione europea a partecipare alla Prima alla Scala, e in onore della quale è stato suonato l’inno alla Gioia immediatamente dopo l’Inno di Mameli: un onore da Capo di Stato. La presidente non ha potuto che dichiararsi d’accordo con l’ospite italiano, dichiarando che “la cultura russa va onorata”.

Un riconoscimento di non poco conto, perché, sin dall’inizio, lo sciagurato conflitto originato dalla aggressione della Russia all’Ucraina aveva assunto – oltre ai toni drammatici della guerra sul campo, che sono tipici di tutti gli eventi bellici – anche quelli “politically correct” di una guerra culturale alla Russia.

Come scrivevo a marzo su Formiche.net in un articolo intitolato “Non sparate sul pianista”, questa era una china pericolosa, perché trasformava un fatto militare – da chiudere al più presto – in uno scontro di civiltà (che per sua natura è endemico).

E infatti, in Ucraina la cancellazione di ogni monumento che ricordasse il passato sovietico è andata avanti imperterrita; poi si è passati anche all’attacco alle testimonianze dell’impero zarista. Persino ad Odessa, la più russa, ma anche la più multietnica e multiculturale città dell’Ucraina (rimandiamo al libro “Nel cuore di Odessa” di Ugo Poletti, giornalista italiano che è rimasto lì durante tutto il conflitto), il sindaco Trukhanov ha dovuto cedere sulla rimozione della statua di Caterina la Grande, che pure fu l’illuminata fondatrice della città. Tutto questo per soddisfare la narrazione nazionalista oggi imperante in Ucraina, che vede la secolare e controversa relazione tra i due popoli esclusivamente in termini di oppressione ed imperialismo. La storia è ovviamente molto più complicata di così.

Purtroppo anche nell’Unione europea, che dovrebbe essere il faro della libertà e della tolleranza, la russofobia ha preso piede, soprattutto nei paesi del Baltico che hanno secolari conti da regolare con l’ingombrante e odiato vicino.

In particolare la Lettonia, da sempre insofferente verso la sua minoranza russa, alla quale al momento dell’indipendenza non è stata concessa in modo automatico la cittadinanza, sembra intravedere una volta per tutte la soluzione del problema. In settembre il Parlamento, Saeima, ha stabilito che dal 2025 tutto il sistema educativo, prima bilingue, sarà solo in lettone. Oltre ad accelerare la transizione linguistica, sono stati recentemente vietati 20 canali televisivi russi. Ancora più controverso è l’abbattimento di un monumento a Riga che celebrava la vittoria sovietica sul nazismo (però i legionari lettoni delle Waffen SS percepiscono la pensione da combattenti e sono celebrati pubblicamente ogni anno il 16 marzo…).  Quando la Lettonia riconquistò l’indipendenza nel 1991, il Paese era per il 48% non lettone. Poi il clima sfavorevole ha spinto all’emigrazione molti russofoni, causando una acuta crisi demografica. Nei prossimi tre decenni, la Lettonia, che ha già perso quasi il 30% della sua popolazione dal 1990, è destinata a perdere il 23,5% in più. La popolazione aveva raggiunto un picco di 2,7 milioni nel 1990, prima della fine dell’Urss, ma ora si attesta a poco meno di 1,9 milioni.

Non importa: la Lettonia del futuro è solo per i lettoni e parlerà solo lettone.

In tale contesto, anche la diaspora russa, pur se composta da elementi inequivocabilmente liberali e anti-putiniani, viene malamente tollerata.

All’inizio della guerra, la Lettonia – proprio in ragione del suo bilinguismo  – era stata scelta da molti media indipendenti russi per continuare ad operare, dopo il giro di vite del regime putiniano sui media: il quotidiano Novaya Gazeta, fondato da Gorbacev e diretto da Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace 2021;  l’emittente pubblica tedesca DW, che aveva assunto la giornalista Marina Ovsyannikova autrice di un clamoroso gesto di protesta contro la guerra alla TV russa; il sito Web di notizie Meduza, e anche il servizio russo della BBC. Russi insomma, ma che hanno fatto una chiara e netta scelta di campo preferendo di continuare a informare il loro popolo dall’esilio.

Ha perciò creato sconcerto il caso di TV Pioggia (Dozhd), che aveva trovato asilo a Riga dopo che Mosca ha invaso l’Ucraina. La Lettonia aveva concesso a TV Pioggia una licenza di trasmissione a giugno, che è però stata revocata con un pretesto dopo meno di cinque mesi di trasmissione.

TV Pioggia rimarrà su YouTube, che è il luogo in cui la maggior parte del suo pubblico guarda i suoi contenuti. Tuttavia, dall’8 dicembre non sarà più in grado di trasmettere sulla televisione via cavo all’interno della Lettonia, per la popolazione locale di lingua russa. Si tratta di una emittente dalle impeccabili credenziali democratiche che ha garantito, finché ha potuto, una sostanziale libertà di stampa negli anni più bui del regime putiniano. La sua chiusura fa esultare il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, e lascia basiti i sostenitori di Aleksej Navalnij e l’opposizione interna. La morale della favola è, insomma: “Non esistono russi buoni”.

Mentre si registra questo attacco alla libertà di stampa in un Paese europeo, e più in generale un clima di intolleranza e di stigmatizzazione verso la Russia e la sua cultura in quanto tali, l’evento della Scala assume dunque una particolare rilevanza politica. Il presidente Mattarella, provocando il ripudio della russofobia da parte della presidente Von der Leyen, ha indicato una chiara linea da seguire, sia a un governo dove siedono ministri che in passato si sono troppo sbilanciati (eufemismo) verso Putin – e che quindi è visto ancora con sospetto dai suoi partners atlantici – sia ai suoi alleati: l’Italia rimane saldamente e senza equivoci nel campo atlantico ed occidentale, ma pone il problema del posto che dovrà avere la Russia nella futura architettura europea. Perché la Russia, nonostante le fantasie euroasiatiche della sua presente – e sperabilmente provvisoria – leadership, è un paese europeo, ed il più grande: nell’enorme e congelata appendice asiatica oltre gli Urali vivono appena 26 milioni di persone; la maggior parte dei russi vive in questo continente.

Questa posizione inequivoca, ma aliena da estremismi, permetterà all’Italia, una volta – si spera presto – che il conflitto avrà termine, di presentarsi al tavolo delle trattative in una posizione forte e al tempo stesso equilibrata. La guerra in Ucraina ci riguarda senz’altro, i secolari contenziosi tra i vicini della Russia molto meno.

Non bisogna infatti dimenticare che le sanzioni danneggiano fortemente l’economia italiana, in particolare di quelle regioni del nord-est che più hanno subìto le conseguenze di due anni di Covid. Una normalizzazione delle relazioni tra Europa e Russia (una Russia evidentemente diversa da questa) è al momento solo un pio auspicio: nondimeno risponde a un nostro preciso interesse nazionale, che è stato a lungo sacrificato.

Quanto all’Ucraina, essa ha nel presidente Zelensky un frontman impareggiabile. “Uomo dell’Anno” sia per il Financial Times che per la rivista Time: un campione al tempo stesso della libertà e della propaganda, che ha completamente mutato la percezione del suo Paese, un tempo noto solo per la sua inefficienza e per la sua spaventosa corruzione.

Mentre sosteniamo gli ucraini nella loro lotta esistenziale conto l’invasione russa, con generosi finanziamenti economici e militari, ci è poco chiaro che Ucraina essi vogliono costruire nel futuro: se un Paese veramente europeo, plurale e dunque aperto e tollerante verso le minoranze etniche linguistiche; o un paese chiuso ed esclusivo, come purtroppo stanno diventando anche alcuni membri della Ue e della Nato.

La diplomazia ucraina dovrebbe trarre lezione dal caso della Scala, e dalla richiesta (respinta) del console milanese di bloccare la rappresentazione del Boris Godunov, per proporre all’Europa – di cui l’Ucraina aspira a essere parte integrante – una visione più costruttiva del suo futuro posto nel continente. Piuttosto che cercare di proibire la cultura russa, potrebbe per esempio far conoscere meglio la cultura ucraina.

Insomma a Sant’Ambrogio, sotto l’accorta regia di Mattarella, è andata in scena ben più che un’opera, ma una brillante e raffinata operazione di diplomazia culturale.

Ancora una volta, meno male che Sergio c’è.



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