Sarebbe corretto iniziare ad analizzare davvero le politiche culturali del nostro Paese: perché soprattutto in questo settore, le scelte condotte riflettono il modello di società che chi ci rappresenta intende sviluppare
Un articolo recentemente pubblicato sul Journal of Cultural Economics analizza come varino i consumi culturali quando le persone perdono il proprio lavoro. I risultati di tale ricerca collocano i beni culturali tra cosiddetti beni “normali”, vale a dire beni il cui consumo varia in modo meno che proporzionale rispetto al reddito.
Senza entrare in dettagli tecnici, i beni di questo tipo si distinguono dai beni di lusso, che crescono in modo più che proporzionale al crescere del reddito, dai beni essenziali, che non subiscono molte differenze, e dai beni inferiori che sono invece quei beni che all’aumentare del reddito, si riducono.
Pur cercando di evitare le dimensioni dell’articolo più prettamente accademiche, ci sono alcuni approfondimenti che può essere utile affrontare, al fine di comprendere appieno le potenziali implicazioni dei risultati.
In primo luogo, è dunque da precisare, che i dati si riferiscono all’economia spagnola, negli anni che variano tra il 2006 ed il 2015, lasso temporale che copre sia momenti di espansione dell’economia che momenti, come quello della crisi dei mercati finanziari, di brusca decrescita. In secondo luogo è poi da sottolineare come l’articolo si concentri su tre specifiche categorie di consumi culturali: libri, cinema e performing arts, musei ed altre esposizioni.
Queste precisazioni sono necessarie, perché è in questo campo di validità che i risultati sono consistenti e che fuori da questo campo la validità degli stessi non è assolutamente implicita.
Ferme restando tali precisazioni, è pur sempre possibile tener conto di questi risultati all’intero di una riflessione ampia soprattutto quando, ed è questo il caso, i risultati tendono a confermare alcune osservazioni della realtà.
Tra le conclusioni cui l’articolo giunge, sono presenti infatti alcune affermazioni che risultano piuttosto vicine alla nostra esperienza: in primo luogo che i consumi culturali sono, almeno in parte, collegati alle aspettative in termini di ciclo economico, il che, detto in modo un po’ più banale, equivale a dire che se i cittadini perdono il proprio impiego in un periodo economico che ci si aspetta rappresenti una crisi duratura, tendono a ridurre i propri consumi culturali maggiormente di quanto facciano, invece, in un periodo di boom economico.
In secondo luogo, la ricerca dimostra che se a perdere il proprio impiego è una persona con alti livelli di scolarizzazione, i consumi culturali mostrano una minore contrazione, pur essendo la contrazione del reddito in media più elevata rispetto ad altre categorie.
Generalizzando, quindi, chi ha un elevato livello di scolarizzazione, condizione spesso associata ad un maggior livello medio di consumi culturali, tenderà a consumare cultura anche a fronte di riduzioni di reddito.
Le motivazioni alla base di questo fenomeno possono essere diverse: da un lato l’ipotesi che vuole che chi consuma cultura tende a dare un valore importante a tale categoria di esperienza, al punto di non rinunciarvici anche in condizioni avverse; dall’altro l’ipotesi che chi ha un livello di scolarizzazione più elevato tende ad accedere a posizioni lavorative più remunerative, e che quindi la momentanea perdita di reddito corrente non inficia in modo significativo i risparmi; ancora, l’ipotesi che chi ha un determinato tipo di reddito e di istruzione sia sostanzialmente impiegato in posizioni lavorative per le quali il tempo di disoccupazione è più ridotto e che questo induca ad avere una posizione meno protettiva riducendo pertanto i consumi.
Ritornando invece al “dato”, quanto emerso dalla ricerca illustra, in linea generale, una realtà che non si mostra molto differente dall’esperienza italiana, e questo può interessare notevolmente il dibattito sul futuro dei consumi culturali nel nostro Paese. Le previsioni legate alla nostra economia, infatti, indicano un periodo di potenziale difficoltà in termini di espansione del PIL, e le varie dimensioni macroeconomiche non escludono periodi di generale contrazione della nostra economia.
In questo quadro, risulta dunque utile iniziare a valutare se le attuali politiche in termini di consumi culturali siano o meno efficaci sotto il profilo strutturale e sistemico, e non solo con riferimento all’iniziativa in sé.
È chiaro che l’erogazione di un bonus monetario per l’acquisto di una categoria di prodotti ne faccia incrementare i consumi. Comprare dei libri, però, non ci trasforma in lettori. Il che, detto in termini più generici, significa che usufruire del bonus monetario non necessaria implica una curva crescente dei consumi nel futuro.
Le politiche che bisogna attuare, tanto più nell’immediato futuro, devono invece contribuire a creare consumatori abituali di cultura, e non è detto che tale azione possa semplicemente essere condotta agendo sulla domanda (incentivando quindi i consumi). In questo senso, potrebbero essere efficaci anche politiche volte ad incentivare il lato dell’offerta, stimolando la produzione di prodotti e servizi più vicini alle esigenze dei cittadini italiani.
Infine, bisogna comprendere l’intervallo temporale di riferimento delle politiche che si intendono adottare: perché per quanto tale elemento non sia trattato all’interno della ricerca, l’effetto del clima culturale familiare e del contesto sociale dei primi anni di età è ben documentato in molteplici comportamenti.
In questo contesto bisogna dunque definire degli obiettivi di politica culturale volti da un lato a favorire un sempre maggior livello di consumi culturali, anche per tener viva un’industria importante per la nostra attuale economia, e dall’altro volti a comprendere come costruire le condizioni che concorrono alla formazione di un clima sociale e familiare che stimoli i consumi culturali nel futuro e, in particolar modo, nelle future generazioni.
Si tratta di scelte politiche che impongono interrogativi anche in termini di equità sociale ed intergenerazionale: stabilire, ad esempio, se sia corretto erogare bonus monetari a tutti i cittadini, alle categorie di persone che si ritiene tendano a consumare meno cultura, o, al contrario, se prevedere premialità per le persone che si ritiene già consumino cultura. Stabilire, analogamente, se sia più corretto stimolare coloro che, per contesto familiare e sociale di riferimento, si ritiene vengano “sotto-esposti” al consumo culturale o, al contrario, se stimolare che, sulla base delle medesime condizioni, possono favorire un maggior risultato in termini di consumi aggregati.
Se, almeno per alcune categorie di persone, i consumi culturali tendono a variare, in potenziali cicli di recessione o stagnazione, sulla base della disponibilità di reddito, ha dunque senso chiedersi se abbia o meno senso favorire gli acquisti di coloro che non consumano cultura.
Gli effetti del ciclo economico sui consumi culturali di questa categoria di persone avrà un basso impatto a livello sistemico (più giù di zero, non si scende nei consumi), mentre invece potrebbe impattare la contrazione di chi già consuma abitualmente cultura.
Tenendo in considerazione che già esistono molteplici attività di fruizione gratuita, non sarebbe forse giusto garantire che i “migliori clienti” delle nostre librerie possano beneficiare di un bonus che consenta loro di mantenere inalterato o crescente il proprio consumo e di destinare, invece, ai “non-lettori”, delle azioni per agevolare il proprio ingresso nelle nostre biblioteche?
Sono domande per le quali non esiste una risposta corretta o sbagliata. Esse riflettono infatti i valori di una determinata società in un dato momento storico. Siamo abituati a pensare che una politica sia equa nella misura in cui benefici in modo equivalente tutti i cittadini. Ma non sempre questo è vero. Una politica può essere equa prevedendo delle distinzioni tra le varie categorie della società; distinzioni basate sull’impatto che una determinata politica può generare a livello collettivo. Lo accettiamo tutti i giorni, quando accettiamo che le fasce più ricche della popolazione versino alle casse dello Stato una aliquota superiore delle fasce più povere. Possiamo anche accettarlo nel pensare una medesima politica di incentivi possa creare maggiori benefici a determinate categorie di persone rispetto ad altre.
Queste considerazioni, partendo da analisi del comportamento aggregato, sollevano quindi delle tematiche su cui, in genere, si tende a sorvolare all’interno del dibattito pubblico legato alle politiche culturali. Tematiche che, invece, è chiaro abbiano impatti importanti sull’intera società.
Sarebbe invece corretto iniziare ad analizzare davvero le politiche culturali del nostro Paese: perché soprattutto in questo settore, le scelte condotte riflettono il modello di società che chi ci rappresenta intende sviluppare.
E non solo in ambito di consumo.