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L’agenda di Atelli per la grande sfida della fiscalità ambientale

Tasse e imposte legate a temi ambientali nel 2021 hanno portato 53 miliardi nelle casse dell’Erario, eppure solo l’1% è vincolato a interventi a tutela dell’ambiente. È il momento di avviare una riflessione di tipo sistemico, che metta ordine e renda funzionali queste ingenti risorse, scrive Massimiliano Atelli, presidente delle Commissioni Via e Vas

Nell’ambito dell’ampio (e sempre aperto) cantiere delle riforme fiscali, non tutte le questioni sono sufficientemente attenzionate nel dibattito pubblico, specie in rapporto ai volumi finanziari che esprimono e alla posta volta per volta in gioco. Fra queste, spicca la fiscalità ambientale, che in Italia, nel 2021, si è tradotta in circa 53 miliardi di euro di gettito (livello superiore, in rapporto al PIL, alla media europea).

Può essere utile, al riguardo, evidenziare qualche ulteriore dato, per accrescere, se possibile, il livello della consapevolezza generale sull’importanza del tema. E sulle sue implicazioni.

Il primo aspetto da evidenziare, è che la fiscalità verde si declina, in concreto, in oltre una ventina di tributi, diversissimi fra loro. Si va, fra l’altro, dall’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili sino alla carbon tax (che colpisce il consumo di combustibili fossili), passando, in ambito urbano, per i pedaggi nelle ZTL e l’imposta di soggiorno. Si tratta, come è evidente, di tributi applicati ai diversi livelli di governo, sicché la questione investe, insieme, lo Stato centrale e le autonomie territoriali.

In secondo luogo, va considerato che, diversamente da quanto ci si aspetterebbe, nella fiscalità ambientale all’italiana l’aspetto etico è disaccoppiato da quello funzionale. In buona sostanza, il principio «chi inquina paga», oggi assunto a paradigma eurounitario, è applicato in Italia essenzialmente al fine di individuare il contribuente, non anche allo scopo di funzionalizzare, in tutto o in parte, il corrispondente gettito. I “tributi verdi” si contraddistinguono infatti, nel nostro Paese, per l’assenza tendenziale di un vincolo di destinazione. Agitando il tema della salvaguardia ambientale, si drenano in tal modo dai contribuenti miliardi, che tuttavia solo in minima parte vanno davvero a finanziare la transizione ecologica: in base a recenti ricerche, appena l’1% delle tasse ambientali è considerato infatti classificabile, in Italia, come imposta di scopo, in quanto vincolato alla copertura di spesa di azioni a tutela dell’ambiente.

In altri termini, il pregiudizio inferto all’ecosistema dai comportamenti incisi dalla c.d. fiscalità ambientale resta per il 99% non riparato, perché esigenze differenti di finanza pubblica prendono, nei fatti, il sopravvento, assorbendo il relativo gettito.

In terzo luogo, il Ministero dell’ambiente pubblica da tempo il Catalogo dei sussidi (includendovi tanto quelli ambientalmente dannosi quanto quelli ambientalmente favorevoli), che nell’ultima versione disponibile (quella relativa al 2020) indica più di 60 sussidi ambientalmente dannosi, per complessivi 21,6 miliardi di euro (per il 2021, le stime di Legambiente parlano di oltre 40 miliardi). Sussidi, quelli di cui si discorre, che – nel loro essere misure di politica fiscale – pongono un tema, evidente, in rapporto agli impegni internazionali presi, anche dal nostro Paese, per dimezzare le emissioni climalteranti entro il 2030.

Altro aspetto interessante sono le tasse ambientali che non possono, in concreto, raggiungere lo scopo cui tenderebbero. È il caso dell’ecotassa, imposta regionale introdotta da decenni. Ebbene, a fronte della sua imposizione, e del gettito che ne deriva, l’Italia smaltisce ancora (secondo le stime più recenti) circa il 20 dei rifiuti nelle discariche. Perché? Perché questa resta la soluzione più economica (ma, allo stesso tempo, di gran lunga la più dannosa per l’ambiente). Va aggiunto che, essendo le relative aliquote tra più le basse d’Europa, secondo gli esperti il corrispondente gettito non riuscirebbe – neppure volendole – a finanziare alternative a più basso impatto ambientale, quali gli impianti di riciclaggio o di recupero energetico.

Infine, a fronte di questo imponente volume complessivo di risorse, che tende ai 100 miliardi di euro annui, non esistono nel nostro Paese, allo stato, segmenti di giustizia tributaria dedicati (qualcosa, cioè, di analogo alle sezioni specializzate istituite in altri ambiti), né percorsi ad hoc di professionalizzazione dei magistrati tributari (neppure la riforma della giustizia tributaria, proprio in questi mesi in corso di implementazione, li ha previsti).

Eppure, circa 100 miliardi di euro annui sono tanti. Probabilmente, troppi, per non avviare, finalmente, una riflessione di tipo sistemico, che metta ordine, da un lato, e, dall’altro lato, funzionalizzi in misura almeno significativa queste ingenti risorse.


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