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Verso una crescente statalizzazione dell’economia? L’analisi di Zecchini

L’espansione della spesa pubblica rivolta direttamente ed indirettamente al sistema produttivo fornisce un insostituibile sostegno all’economia, ma accentua la dipendenza del sistema imprese dalla finanza pubblica e dal Pnrr. Quanto questa statalizzazione dell’economia possa durare è difficile stabilirlo, ma bisogna sin d’ora interrogarsi su come sganciare la spinta alla crescita sia dal Pnrr, sia dallo Stato. L’analisi di Salvatore Zecchini

L’assunzione sotto l’ala dello Stato di importanti società private in crisi, la scalata irrefrenata della spesa pubblica, la diffusione ad ampie mani di bonus e aiuti a vario titolo e il peso crescente dei finanziamenti o garanzie pubbliche per i crediti alle Pmi e ad altre imprese dipingono il quadro di un progressivo slittamento del Paese verso la statalizzazione dell’attività produttiva con la condizione aggiuntiva di carenza di un disegno di politica industriale che ne guidi e limiti gli interventi.

I casi più eclatanti delle crisi dell’ex Ilva di Taranto, oggi Acciaierie d’Italia, Mps, Ita, rete pubblica di telecomunicazioni, l’industria di Termini Imerese si trascinano da diversi anni alla ricerca di soluzioni che siano accettabili all’establishment politico, piuttosto che rispondere a rigorosi criteri di mercato e di promozione della ristrutturazione produttiva e del rilancio sul mercato. Di recente si è aggiunto anche quello della raffineria di Priolo, che è caduta nelle maglie delle sanzioni alle importazioni di petrolio dalla Russia. Si lasciano, invece, da parte i settanta e più casi di aziende per cui è stato aperto il tavolo di crisi presso il MiSe, oggi ridenominato MimI, che spesso si chiudono con l’erogazione di aiuti pubblici.

Un peso importante ha anche la galassia delle imprese a partecipazione pubblica, che non tende a diminuire rispetto al 2019 ma ad espandersi. Attualmente le controllate direttamente dallo Stato comprendono 12 grandi società o aziende operanti nei settori delle utilities, media, difesa, finanza e assicurazione, e 23 società non quotate attive in campi disparati, dalle infrastrutture all’elettronica e allo sport. Nella stessa galassia orbitano le società in house controllate dagli enti territoriali, che secondo l’ultima rilevazione dell’Istat per l’anno 2018 superano le quattro mila unità. Complessivamente le partecipate producono il 9% circa del valore aggiunto nazionale.

Il ruolo maggiormente pervasivo del settore pubblico nell’economia è, tuttavia, svolto dalla spesa pubblica. Questa, secondo l’ultima legge di Bilancio in discussione al Parlamento, dopo essersi dilatata dell’8% quest’anno, continuerà a espandersi del 9% il prossimo, mentre poco credibili sono le proiezioni di una sua modesta discesa nel biennio successivo perché non tiene conto delle manovre che vengono abitualmente compiute nel corso degli anni. Si tratta di un ulteriore incremento di 45,6 miliardi, per due terzi rivolti a spese correnti e per 68% in deficit non essendo compensati da pari entrate. A pesare non è solo l’ammontare, ma la sua rilevanza nella formazione del Pil.

La spesa, che già nell’anno del Covid aveva superato il cinquanta per cento del Pil collocandosi al 52,6%, dopo la discesa al 50,4% nel 2021 per effetto del ribalzo delle attività produttive, è destinata a lievitare nel 2022 portandosi al 57,5% e continua verso il picco del 59,5% nel prossimo anno. In altri termini, oltre la metà della formazione del Pil transita attraverso le erogazioni del settore pubblico, che, pertanto, svolge un ruolo fondamentale di sostegno e traino all’economia sul piano sia congiunturale, sia di tendenze di medio periodo. Il ruolo di traino è esercitato principalmente, ma non esclusivamente, dagli investimenti e dalla formazione di capitale umano.

In un simile contesto, non sorprendono le critiche avanzate in Italia da alcune parti alla proposta della Commissione Europea di riforma del Patto di Stabilità nel senso di porre limiti all’espansione della spesa pubblica come freno alla prodigalità dello Stato in Paesi che hanno già accumulato un elevato debito pubblico, tra cui il nostro. Da altre parti si richiama, travisandolo, il pensiero dell’economista J.M.Keynes per sostenere la prosecuzione delle politiche di spesa pubblica in deficit per contrastare l’atteso rallentamento congiunturale nel 2023. Si trascura di analizzare in profondità la destinazione a cui è rivolta l’espansione della spesa in disavanzo e le sue conseguenze in termini di sostenibilità del risultante aumento del debito.

Dal bilancio pubblico del 2020 fino all’ultimo disegno di legge di bilancio continua la tendenza espansiva della spesa, con la componente più dinamica diretta al welfare pensionistico e sanitario, insieme all’elargizione di aiuti a famiglie ed imprese sotto forma di bonus, crediti d’imposta ed altro. Segue a distanza la quota diretta a coprire o promuovere gli investimenti che in gran parte sono incardinati nel programma Pnnr su cui si è assunto un impegno verso l’Ue.

In particolare, per il 2023 a previdenza ed assistenza è assegnata la quota maggiore, 23,1% della spesa, e alla sanità ed istruzione il 18,1%. Alla spesa in conto capitale è, invece, destinato il 17,5% del totale delle spese finali, ma la parte che va direttamente agli investimenti è inferiore, in quanto il 10,6% è sotto forma di contributi ad Amministrazioni pubbliche e il 3,7% è per contributi alle imprese. Soltanto l’1,5% è speso direttamente in investimenti fissi e una percentuale ancor più modesta in ricerca ed innovazione.

Nell’insieme il bilancio per l’anno prossimo resta nel solco dell’assistenzialismo verso famiglie e imprese, piuttosto che concentrare le limitate risorse non vincolate a spese obbligatorie su finalità volte a elevare il potenziale di sviluppo dell’economia nel medio periodo, ovvero investimenti, tecnologia e avanzamento delle competenze.

Si potrebbe obiettare che anche ampliando la spesa corrente si crea domanda che sollecita investimenti privati e genera occupazione. Nondimeno, l’esperienza dello scorso decennio indica che una domanda pubblica poco orientata a potenziare le condizioni per una crescita duratura non allevia il problema annoso di portare il Paese su un sentiero di prosperità non effimera, né lo avvicina ai Paesi più sviluppati.

Plaudire alla forte ripresa del reddito nazionale nell’ultimo biennio non aiuta a esaminare se si è fatto abbastanza per mantenere ritmi elevati di accrescimento economico su orizzonti più lunghi. Né il ricorso al Pnrr è sufficiente a questo scopo sia per i ritardi e le difficoltà incontrati nell’attuazione degli interventi, sia per la qualità degli stessi, che in diversi casi lasciano dubbi sulla loro validità in una fase economica globale segnata da radicali cambiamenti di tecnologie, mercati e attori economici e finanziari.

In mancanza di un’enunciazione unitaria degli obiettivi e delle azioni, che non sia solo nel quadro del Pnrr, bisogna esaminare, in particolare, i programmi di missione dei tre ministeri preposti alla politica “industriale”, al settore energia e alla ricerca ed innovazione per valutare quanto rilevante sia l’intervento pubblico per affrontare le nuove sfide dello sviluppo.

Nel programma del MimI, dettagliato in una Nota Integrativa della legge di Bilancio, sono indicati nove obiettivi prioritari in termini molto generici perché si possa trarre una visione dei traguardi verso cui si vuole indirizzare il sistema produttivo. Ad esempio, si afferma di voler difendere e rilanciare la manifattura, sostenere la riconversione industriale, attuare misure ed investimenti compresi nel Pnrr razionalizzare gli incentivi, valorizzare la ricerca e promuovere il trasferimento tecnologico, attrarre investimenti, migliorare semplificare l’amministrazione. Obiettivi analoghi si ritrovano nei programmi dei governi precedenti, con la sola aggiunta del riferimento al Pnrr.

Non si enunciano azioni per creare un ambiente più favorevole all’imprenditorialità, né a promuovere la concorrenza, né per le deregolamentazioni, ma piuttosto ci si limita alla vigilanza per il rispetto delle normative e del buon funzionamento dei mercati. Nessuna indicazione su grandi progetti prioritari su cui concentrare risorse e indirizzare gli imprenditori, anche se scelte più puntuali si trovano nel Pnrr con l’impegno a sostenere digitalizzazione e transizione verde nonché a partecipare agli Ipcei lanciati dalla Commissione Ue. Entrando nei particolari delle missioni della legge di Bilancio, sono assenti i richiami ai collegamenti con le riforme di struttura e con i progetti dei ministeri dell’energia ed ambiente e della ricerca. Sulla crescita dimensionale delle imprese, che è una delle grandi debolezze del sistema, non si prevedono azioni particolari. Quanto al monitoraggio dell’efficacia degli interventi, si scelgono indicatori quantitativi dei risultati e non indicatori di impatto, come invece si pretende.

Altre indicazioni sugli indirizzi politici in materia di energia ed ambiente non sono specificate per il poco tempo trascorso dall’avvio del nuovo governo, ma valgono gli impegni assunti nel Pnrr e quelli presi col Piano Integrato per l’energia e il clima. In questo contesto si trovano indicazioni meno generiche sulle tecnologie su cui si punta, perché rappresentano la proiezione sul versante interno degli indirizzi dell’Ue e delle iniziative che hanno ricevuto la sua approvazione e il conseguente finanziamento. L’elemento nuovo della sicurezza energetica di fronte allo sconvolgimento dei mercati petroliferi ha prodotto, tuttavia, cambiamenti nelle priorità di intervento e finanziamento, lasciando in secondo piano le priorità ambientali. Di fatto, la realtà impone una profonda revisione dei piani operativi del Paese definiti nello scorso biennio ed un più intenso coinvolgimento di competenze, iniziative imprenditoriali e capitali del settore privato.

Nel programma per la ricerca e il trasferimento tecnologico emerge meglio un approccio di sistema che collega istruzione superiore, ricerca e impresa in un rapporto funzionale non unidirezionale, ovvero che va dal potenziamento dell’istruzione al soddisfacimento del bisogno di competenze delle imprese. Le interazioni vanno nei due sensi con un maggior rilievo alle esigenze del mondo produttivo. L’indicazione dei progetti resta, tuttavia, su un piano generico e gli indicatori di risultato prescelti non sono atti a misurare l’efficacia degli interventi.

Chi volesse avere una visione di insieme della politica di spesa per la crescita di medio periodo, su cui allineare le attese e i programmi di investitori e finanziatori, certamente non può trarla da queste enunciazioni. La differenza rispetto alla politica “industriale” di Paesi, quali Francia e Regno Unito, è di tutta evidenza.

In Francia si è varato un piano “industriale” di 54 miliardi, che fissa 11 obiettivi precisi e 6 strumenti principali. Tra gli obiettivi troviamo il nucleare, l’idrogeno verde, le tecnologie delle rinnovabili, la decarbonizzazione dell’industria, dell’aviazione e del trasporto, 20 biofarmaci, una nuova avventura spaziale, il riciclaggio delle materie prime e l’industria alimentare avanzata. Gli strumenti includono, tra l’altro, l’elettronica, la robotica e le macchine intelligenti, il digitale strategico e la formazione avanzata. L’insieme è sviluppato in matrici operative che entrano nei dettagli e forniscono una guida verso cui orientare le imprese.

Nel Regno Unito, dopo un’attenta valutazione delle cause della scarsa efficacia dei programmi precedenti, si sono varati un piano per la crescita, con indicazione dei settori e delle tecnologie prioritarie, e una strategia per l’innovazione. Un elemento importante è costituito dall’attenzione agli aspetti microeconomici, coniugando politiche di tipo orizzontale con interventi verticali su specifici comparti. Tra le novità si notano interventi per i problemi di disponibilità di competenze adeguate e il coordinamento tra le varie parti del governo per mantenere i loro interventi in coerenza con gli obiettivi del piano.

La spesa pubblica italiana non arriva a questi standard di concretezza ed organicità per definire ed attuare una coerente politica della crescita che vada oltre il Pnrr, che per sé stesso affronta soltanto alcuni degli impedimenti alla crescita. Nondimeno, l’espansione della spesa pubblica rivolta direttamente ed indirettamente al sistema produttivo fornisce un insostituibile sostegno all’economia, ma accentua la dipendenza del sistema imprese dalla finanza pubblica e dal Pnrr. Quanto questa statalizzazione dell’economia possa durare è difficile stabilirlo a fronte di un debito pubblico ai limiti della sostenibilità, ma bisogna sin d’ora interrogarsi su come accentuare la spinta alla crescita al di fuori e al di là sia del Pnrr, sia dello Stato. Saprà il Paese progredire nel rinnovamento del sistema e quindi contare meno sulla dipendenza dal sostegno statale?



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