Padre Spadaro firma un saggio sul prossimo numero di La Civiltà Cattolica dove si interroga non solo sul futuro, ma anche su qual è il rapporto della Chiesa con il passare del tempo, con la sua storia, le sue tradizioni e l’epoca presente. Lo ha letto per Formiche.net Riccardo Cristiano
Il numero de La Civiltà Cattolica in uscita sabato prossimo ci propone un saggio del direttore, padre Antonio Spadaro, su un tema che sembra di attualità, ma che è molto di più. Il titolo dice tutto: “Crisi e futuro della Chiesa”. I due temi, crisi e futuro, toccano il problema di come porsi davanti a un mondo che sembra allontanarsi da Dio e che quindi sembra richiedere risposte forti, basate su una nuova intransigenza. È davvero così? O questo non è il grande rischio? Il discorso così prende le mosse dalla definizione del problema che si pone: “La Chiesa ha futuro? Qual è il rapporto della Chiesa con il passare del tempo, cioè con la sua storia?”. Si entra dunque, da subito in una discussione di fondo: “Ad alcuni sembra che il nostro mondo stia cessando di essere cristiano: come facciamo a parlare di giovinezza della Chiesa? L’insignificanza sembra la condanna, e parliamo di futuro? Ci dibattiamo spesso tra tradizionalismo e modernizzazione, ma non ne usciamo. E, certo, uno dei problemi gravi della Chiesa d’oggi è quel che il Papa, con un neologismo, ha definito più volte «indietrismo», una «moda» che porta non ad «attingere dalle radici per andare avanti», ma a fare un «indietrismo che ci fa setta, che ti chiude, che ti toglie gli orizzonti» e ti fa custode «delle tradizioni morte». La vera domanda è: se il Vangelo non fosse proclamato, mancherebbe qualcosa di essenziale alla vita umana?”.
Qui padre Spadaro ci fa ricordare la recente dichiarazione di papa Francesco sul tradizionalismo che richiamandosi all’idea del “si è sempre fatto così”, fa riferimento a ciò che noi facciamo o abbiamo sempre fatto, e questo è paganesimo del pensiero. Qui entrano in ballo la fede, la speranza, il futuro. E l’autore prende di petto il problema di fondo, profondo, ma uscendo dal “recinto cristiano”, citando lo scrittore svedese Stig Dagerman, al quale mancava la fede e quindi la felicità – così scrisse – “perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa”. Dunque, concludeva, “il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto”. Dagerman non può pensare il futuro… Per lui il meraviglioso è una sorta di eterno presente, come il bambino che si brucia col fuoco, ma poi torna ad accostarsi, bruciandosi ancora. L’esperienza di Dagerman è l’urlo di una disperazione che ha provato l’esperienza della grazia e della meraviglia, ma senza credere che questa sia possibile come storia, come futuro aperto. È un totale presente fuori dal tempo, che lascia nel buio e senza grazia il pensiero del tempo che scorre e supera l’istante.
“Qui, scrive Spadaro, si intravede una risposta alla domanda sulla giovinezza della Chiesa e sul suo futuro: tenere viva la convinzione che l’esperienza della grazia e della meraviglia sia possibile come storia, come futuro. La speranza sfida il nichilismo”. Dunque il tempo della Chiesa è il futuro. Che cosa vuol dire? Che l’apertura allo Spirito sta nel ritenere pensabile un futuro, qualcosa che deve ancora accadere e quindi generare futuro. Vivere nel possibile, non nel probabile. Dunque l’apertura allo Spirito ci impone l’incertezza, uscire dalla nostra ricerca di sicurezza, di stabilità. Leggendo mi è parso di capire meglio il no “all’indietrismo”.
Parlare di futuro, anche di futuro della Chiesa, richiede apertura all’incertezza, non alla statistica. Con le statistiche non si incontra la speranza cristiana. Un conto è pensare il futuro in base alle proiezioni, una prosecuzione del presente in base al passato, un altro immergersi in una storia che ci arriva, “dentro la quale siamo chiamati, senza essere prodotto dei nostri calcoli, e tanto meno di piani pastorali realizzati da operatori”. Il futuro della Chiesa non si pianifica su basi quinquennali, verrebbe da commentare. Dunque in cosa consisterebbe questa “giovinezza della Chiesa” non programmabile su basi quinquennali, a mezzo di accurati piani pastorali? È la speranza, “il territorio della grazia, l’unica possibilità di giovinezza della Chiesa. Essa implica l’incertezza, l’indeterminazione. Non l’ordine, la codificazione, il solido, ma l’informe, il diveniente, ciò che non è ancora solidificato e definito”.
Non ci sono bilancini di calcolo, per Spadaro c’è un abisso da superare, “quello della fiducia nella possibilità di una storia futura che non conosciamo e che non è deducibile dal presente e dal passato come fosse una logica conclusione, una storia che è «altro» rispetto a noi e ai nostri noti limiti. In questo senso il futuro non è la combinatoria delle nostre attese e delle nostre aspettative”.
Ovvio che arrivati a questo punto si debba parlare dell’inquietudine, del pensiero aperto, cioè di ciò che per Francesco ci dà la pace. “Solo l’inquietudine dà pace”, ha detto Francesco proprio ricevendo gli scrittori de La Civiltà Cattolica. Perché? Quanto detto prima ci fa capire qualcosa di questa prospettiva, poi questa visione. Il gesuita infatti, per Francesco, è un uomo dal pensiero incompleto perché “pensa sempre guardando l’orizzonte verso il quale deve andare, avendo Cristo al centro”. Ma per fare questo l’orizzonte deve essere aperto, non può trasformarsi in un recinto. Dunque anche il pensiero deve essere aperto, cioè incompleto. Non rinchiuso nel perimetro delle proprie idee. Dio, a differenze delle ideologie, non è mai rigido per Francesco. “C’è una dimensione di incertezza, di incompletezza che è parte integrante di una vita di fede, che è – come Francesco disse nell’intervista a La Civiltà Cattolica – «avventura», «ricerca», apertura di nuovi spazi a Dio. E questo genera sana inquietudine”.
L’opposto dell’uomo inquieto è l’uomo adattato alle buone norme. Potremmo dire, ripensando a quanto letto sin qui, un uomo in regola con il calcolo del probabile, allineato con l’algoritmo della buona società e delle sue regole. Quest’uomo però difficilmente genera futuro, perché per farlo occorre inquietudine. Ecco dunque la sfida, espressa con parole fortissime: “Si avverte la tentazione di opporre al caos percepito la risposta di un cattolicesimo intransigente e identitario. Noi oggi riconosciamo che una «civiltà cattolica» non è una bolla chiusa in sé stessa, né alimenta rancori nei confronti di un mondo che ad alcuni sembra ormai perso e alla deriva, abbandonato da Dio. La civiltà cattolica non è quella costruita sull’intransigenza dei puri, che uccide lo spirito. La tentazione identitaria è la necrosi del cristianesimo”.
Dunque l’utopia è una forma di speranza, non può essere respinta, bollata come mera astrazione. L’utopia parte dall’insoddisfazione per il presente ma si proietta verso un mondo diverso considerato possibile.
Siamo dunque alla proposta bergogliana, dell’uomo “disinstallato”. È un altro espressione efficace, tra le tante utilizzate da Francesco, a cui ha fatto ricorso in un messaggio ai giovani delle Antille. Chi è installato deve disinstallarsi e cominciare a lottare, disse più o meno il papa in spagnolo. È la scelta dei gesuiti, che non furono monaci stabili, ma vissero in missione. Dunque l’idea è quella di un popolo pellegrino, che trascende sempre le pur necessarie espressioni istituzionali. È questo che rende la Chiesa diversa agli imperi. Anche la Chiesa esercita un potere, nel bene o nel male, ma lo spazio non è il suo unico criterio, altrimenti diverrebbe un potere come gli altri. Ancora una volta arrivano parole chiarissime: “Il popolo eletto, una volta diventato impero o partito, entra in un intricato intreccio di dimensioni religiose e politiche capace di fargli perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo, contrapponendolo a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al nemico istituzionalizzato come tale. Lo muovono alla conquista o alla colonizzazione. Il futuro sarebbe ipotecato, la giovinezza defunta. E invece il tempo futuro della Chiesa è la suspense”.
Il saggio prosegue con numerose altre riflessioni importantissime che qui non si possono riproporre tutte, ma quella sul rapporto con il passato, con il nostro passato, è troppo importante. Il passato non è un capitolo chiuso. La vita ci porta spesso e volentieri a ri-capire il nostro passato, quello personale, individuale. Un’esperienza che abbiamo ritenuto deleteria può divenire una lezione decisiva, un punto di svolta. Dunque è possibile convertire il passato. La conversione è dare un nuovo senso all’esperienza vissuta. “La memoria non va considerata come una trascrizione immutabile. Se il passato determina il presente, è perché a sua volta esso è ripreso e quindi rimodellato dal presente. È possibile una «conversione» in profondità solamente se il passato non è già determinato e non è sottratto interamente alla possibilità di azione. Il passato deve rimanere aperto. Questa è la «giovinezza». Non una condizione passeggera e transeunte, né una nostalgia da rincorrere goffamente e senza speranza come su un tapis roulant. La giovinezza consiste nel non sigillare il passato, nel lasciarlo aperto alle interpretazioni (e al loro conflitto). Perché? Perché la memoria dell’esperienza vissuta nel passato acquisisce nel presente un senso imprevisto, ma attuale ed efficace, nella direzione di un’attesa di futuro. La religione è anche un re-legere, una rilettura, un ripensamento del vissuto”. Questa conversione del passato che aiuta a generare futuro è forse la cifra di tutto il ragionamento, l’alternativa all’intransigenza identitaria, quella che altri hanno chiamato “cristianismo”.