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Di chi è la colpa per le nostre “nuove dipendenze”? Il caso Fortnite

Epic Games, produttrice di Fortnite, ha patteggiato una multa da 520 milioni. Ma è più interessante seguire la class action che le attribuisce la responsabilità per le dipendenze che il videogioco scatena nei giovani. Ma addossare le colpe a un’azienda vuol dire deresponsabilizzare la società. O finirà che quando compriamo il pane dovremo tirare fuori un certificato che non abbiamo disordini alimentari? L’analisi di Stefano Monti, partner di Monti&Taft

Giorni difficili per Epic Games. È di oggi la notizia che la società, creatrice del gioco Fortnite, ha patteggiato una multa da 520 milioni di dollari per le accuse di violazione della privacy dei minori online e l’adozione di comportamenti che ostacolavano il diritto di recesso.

Si tratta di una notizia che segue un’altra vicenda, emersa invece qualche settimana fa, che ha visto tre genitori ottenere il via libera da un giudice per poter formare una class action contro la società e, nel dettaglio, contro Fortnite, in questo caso perché, a dire dell’accusa, il gioco sviluppa “dipendenza”.

Se il patteggiamento riguarda dinamiche legate alla privacy dei minori, e “dark-pattern” vale a dire pratiche (invero abbastanza comuni) che rendono facile avviare degli acquisti e difficilissimo recedervi, la class action si inscrive invece all’interno di un dibattito molto più esteso, che riguarda le cosiddette dipendenze-senza-sostanza.

Si tratta, in pratica, di meccanismi di dipendenza che non vengono innescati dall’assunzione di una specifica sostanza esterna (come una droga), ma da reazioni interne all’individuo che vengono generate da specifici comportamenti.

Tra queste “nuove dipendenze”, come si è soliti chiamarle, rientrano ad esempio lo shopping compulsivo, il gioco d’azzardo, la dipendenza da smartphone, ecc.

Il fenomeno non è del tutto nuovo, al punto che nel tempo si sono formate vere e proprie strutture di riabilitazione specializzate nell’aiutare le persone a risolvere la propria dipendenza da videogame, o da smartphone.

Il punto della questione, pertanto, non è dunque stabilire se un videogame come Fortnite abbia caratteristiche tali da indurre dipendenza. Si tratta di un’evidenza che è palese a chiunque abbia mai giocato, almeno una volta nella vita, ad un videogame ben costruito.

Il punto su cui riflettere è la determinazione dei ruoli all’interno della società. Perché nel caso in cui la class-action dovesse condurre alla condanna per la società produttrice di un videogame, si configurerebbe una condizione in cui qualunque società di produzione, per evitare potenziali azioni legali, andrebbe a limitare, deliberatamente, la propria produzione per evitare l’insorgere di comportamenti compulsivi.

A prima vista può sembrare una condizione ragionevole: è giusto che una società che immette un prodotto su un mercato eviti di introdurre all’interno di quel prodotto delle condizioni che conducono alla dipendenza.

Ma questa, però, è una riflessione che ha un senso compiuto quando ad innescare la dipendenza è una sostanza, perché in tal caso, la sostanza ha delle caratteristiche specifiche che inducono dipendenza.

Nel caso dei videogame non è così. Esistono milioni di persone che giocano ad un videogame senza che da ciò derivi una condizione invalidante. E questo è un passaggio importante.

Perché se molte persone giocano ad un videogame, che sia Fortnite o che sia Sid Meier’s Civilization, senza sviluppare la dipendenza, significa che la responsabilità di tale dipendenza è da rintracciare anche nell’individuo che ne abusa.

Ritorniamo dunque all’ipotesi di condanna della società, e alla conseguente auto-limitazione produttiva da parte delle altre imprese.  Lo scenario che si disegna è quello di una società caratterizzata da un’eccessiva richiesta di “comportamenti paternalistici”, in cui i cittadini non si limitano a demandare allo Stato azioni che potrebbero ricadere nell’alveo della responsabilità privata, ma assumono questo atteggiamento di delega anche nei confronti dei soggetti imprenditoriali.

Utilizzando un lessico aziendalistico, quindi, quella che ne emergerebbe è una società civile abituata a demandare in outsourcing l’esercizio di una vasta gamma di responsabilità.

Si pensi, ad esempio, alla dipendenza da lavoro (workaholism) o ai comportamenti compulsivi nei riguardi del cibo (come il fenomeno del binge eating).

Sarebbe distopico immaginare un mondo in cui, per comprare del pane, bisogna esibire una tessera che dimostra di non avere disturbi alimentari. Così come sarebbe ridicolo immaginare un mondo in cui le imprese, per evitare che i propri dipendenti sviluppino dipendenza da lavoro, si vedano costrette ad eliminare i premi di produzione, le cene aziendali, o anche i riconoscimenti informali nei riguardi di un dipendente che ha chiuso un buon contratto.

I videogame sono un prodotto culturale molto potente. Probabilmente tra le categorie di prodotto culturale più rappresentative del nostro tempo e, sicuramente, la categoria di prodotto culturale alla quale si associa il gap generazionale più forte.

Possono presentare caratteristiche poco desiderabili, è vero. Così come quasi ogni elemento legato al mondo “social”.

Ma è importante stabilire quali siano le responsabilità delle differenti componenti della società. Perché evitare che il proprio figlio adolescente sviluppi un comportamento compulsivo nei riguardi dei videogame, delle serie Tv, dei social network, deve rientrare nell’alveo delle responsabilità del singolo e, con lui, della società civile, che può sviluppare, autonomamente, soluzioni e strumenti di sostegno e di aiuto.

Non si sta certo condannando i genitori di quei ragazzi che hanno nel tempo sviluppato dipendenze di questo tipo: la sfida è tutt’altro che semplice, e non è nemmeno detto che essere un genitore modello scongiuri la possibilità di dipendenza.

Ricorrere però ad una così completa deresponsabilizzazione sociale può essere tutt’altro che utile nella gestione di questi problemi.

È forse il caso che la nostra società occidentale inizi a riprendere su di sé l’onere del proprio vivere civile, e non solo in questo caso specifico. Riprendere su di sé tale responsabilità significa tener conto del proprio ruolo all’interno della società; significa ridurre il ricorso alla delega ed incrementare il ricorso al “monitoraggio”: monitoraggio delle attività governative, partecipazione alla costruzione del benessere sociale, partecipazione al valore pubblico generato.

È giusto che le aziende agiscano in modo responsabile. E che si comportino in modo corretto nei riguardi dei loro utenti/clienti. Ed è quindi giusto che Epic Games paghi così come patteggiato per delle tecniche poco trasparenti.

C’è però una differenza tra “punire i comportamenti non corretti”, e delegare alle società di produzione di beni e servizi delle responsabilità aggiuntive rispetto a quanto previsto dalla normativa di settore.

Perché insieme alla “Responsabilità Civile” delle Imprese, è altrettanto giusto che si inizi a consolidare il concetto di “responsabilità civile” intesa come responsabilità della società e dei cittadini.

Quella responsabilità civile che ciascuno di noi ha nei confronti della società cui appartiene.

Foto di Erik Mclean su Unsplash



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