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Francesco, il Natale e il futuro della Chiesa. Parla Borghesi

Le difficoltà che questo Natale ci pone davanti agli occhi, la guerra mondiale, l’isolamento, la mancanza di grandi utopie, indicano il bisogno che non solo i cattolici avrebbero di una nuova fase. Conversazione con Massimo Borghesi, uno dei più apprezzati studiosi del pontificato di Francesco, della sua biografia intellettuale e del dissidio cattolico

Il pontificato di Francesco si è confrontato con nemici agguerriti, portatori di un identitarismo arroccato che rendeva impossibile un dialogo con il mondo, percepito come scristianizzato e quindi nemico. A questo nemico i nemici del papa hanno opposto un modello chiuso, integralista, arroccato sulla difesa delle tradizioni intese come “si è sempre fatto così” e che quindi bisogna intendere come il dover seguitare a fare così. A questa visione fallita, Francesco ha opposto la sua Chiesa in uscita, il suo ospedale da campo. I grandi referenti di questo dissenso dal papa, Putin e Trump per dirla un po’ semplicisticamente, hanno fallito, lasciando un mondo rabbioso senza referenti spendibili, o come si pensava, vincenti. La bussola che Francesco ha offerto per anni contro la chiusura “cristianista” di un cristianesimo fatto di guerre culturali ha ora bisogno di un salto in avanti e questo Natale di guerre, disprezzo per la persona, capacità di concepire la guerra come “sterminio del nemico” impone una riflessione su come procedere, come sviluppare un cammino che riporti nell’attualità, nel mondo di oggi, l’annuncio cristiano. È proprio la crudezza dell’attualità a dimostrarne l’urgenza.

Parlare di questo con il professor Massimo Borghesi, uno dei più apprezzati studiosi del pontificato di Francesco, della sua biografia intellettuale e del dissidio cattolico che ha accompagnato un pontificato che alcuni sono arrivati a definire “eretico” per l’urgenza di confermarsi in eterne certezze umane da “noi contro loro” è un’occasione importante per cercare di guardare avanti, a dove si potrebbe cercare un linguaggio per un pontificato che alcuni vorrebbero ormai avviato verso il suo tramonto, mentre potrebbe non essere così.

Il professor Borghesi individua nella tensione polare la possibile bussola completamente bergogliana di una nuova fase pontificale, capace di dare nuovo impulso a un movimento dopo aver contrastato la cultura della paralisi o dell’ arroccamento. Riferirsi a una tensione polare può apparire qualcosa di astruso, o complesso, ma è decisivo: nel nostro pensiero occidentale è divenuto normale desiderare di cancellare l’antitesi per correre alla sintesi mentre in ogni polarità c’è vita, c’è un modo di essere al mondo, di esprimersi. Per vivere sono essenziali sia lo zucchero che il sale, che hanno sapori e funzioni diversi.

Per riassumere il suo ragionamento direi che il professor Massimo Borghesi parte dall’assunto che il pontificato di Francesco ha rappresentato una grande novità proprio per la scelta di vivere nella tensione polare (per la quale i due poli polo sono entrambi indispensabili per creare energia) e che oggi questa tensione servirebbe alla Chiesa, magari offrendo parrocchie e movimenti come i terminali di una tensione feconda, che può offrire alla Chiesa una concretezza per l’idea, o forse per la necessità, di superare una visione tutta clericale. Superare il clericalismo incontra ovviamente delle resistenze, non è facile riuscirci, ma se esiste il “popolo di Dio in cammino” tutti i carismi vanno riconosciuti e valorizzarti.

Che il clericalismo sia un problema Francesco lo ha detto più volte, ma per superarlo ora occorre intraprendere un cammino, direi territoriale oltre che simbolico. Per riuscirci Massimo Borghesi vede due urgenze: mettere mano alla formazione dei preti e aiutare i movimenti. Parlando di formazione del clero occorre intendersi: è una formazione culturale e spirituale, che li renda capaci di parlare con questo mondo, o per meglio dire, con il mondo nel quale si trovano. Qui in Occidente occorrerebbe dunque una formazione più a contatto con la realtà di una società, soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni, che ormai sanno poco dell’annuncio evangelico e che quindi hanno bisogno di un clero capace di capirli, di interessarli e non di temerli.

Accanto a una formazione rinnovata che porti quindi linfa vitale nelle parrocchie, servono i movimenti, l’espressione concreta del laicato cattolico che ha bisogno di nuova fiducia e anch’essi di linfa vitale, oltre che di regole. Questa tensione polare tra parrocchia e movimenti aiuterebbe nella concretezza della storia a rendere visibile una Chiesa anche non clericale, nella quale la proposta di Francesco diverrebbe sostanza. Il ruolo delle donne nella Chiesa non può essere ridotto alla discussione sul ruolo sacerdotale, ma questo allargamento diverrebbe possibile se il “potere” non fosse soltanto sacerdotale. Dunque la proposta di Francesco di nominare una donna a capo di un dicastero vaticano potrebbe diventare un esempio se la Chiesa vivesse la sua tensione polare tra parrocchia e movimenti e trovasse quindi non solo nuove testimonianze ma anche la necessità di accettare nuove sfide, come il riproporre anche il diaconato femminile, o l’amministrazione di parrocchie da parte di parrocchiane capaci. Ma è possibile questo senza un rinnovamento della formazione dei preti? Senza un “pensiero cattolico” di cui, da più parti, si lamenta l’assenza?

L’esempio che offre il professor Borghesi è molto semplice, forte, chiaro: il papa si richiama spesso al pensiero di Romano Guardini, il pensatore cattolico che ha fatto da bussola per lui in anni lontani e che tanto ha contribuito a riaccendere la visione della tensione polare. Un pensiero importante, che andrebbe studiato e che potrebbe essere oggetto di un’indicazione concreta per rinnovare i corsi e le priorità delle università pontificie.

Questo rinnovamento potrebbe incrociarsi con un altra priorità, un’altra tensione polare davvero urgente, quella dell’incontro tra azione evangelizzatrice nelle periferie del mondo e azione ri-evangelizzatrice in Europa, o in Occidente. Anche qui si vede come servano entrambe, e contestualmente. Dopo la stagione tutta europea di Benedetto XVI, l’attenzione alle periferie di Francesco è arrivata come la risposta a un’esigenza indiscutibile. E ora? Richiesto di indicare come procedere il professor Borghesi vede questa esigenza di una Chiesa che sappia parlare alle periferie e trovare il modo di parlare anche a quello che rimane, almeno per ora, il centro, cioè l’Occidente. Qui serve però un linguaggio specifico, perché non ci sono più presupposti condivisi, come può essere ad esempio in America Latina. Ascoltando vien da pensare che il papa delle periferie, che sono anche periferie esistenziali, potrebbe trovare la cifra per giocarsi la Chiesa in uscita anche nelle periferie di Parigi, o a Manhattan, proprio offrendo lui stesso, magari non da solo, la predicazione di un Cristo incarnato, non quello dei convegni diocesani arroccati sulla propria idea di passato da riproporre. Massimo Borghesi sembra dire di sì.

L’idea di un Francesco immerso nella solitudine, come se fosse lontano da fughe in avanti e nostalgie impermeabili alla realtà, può essere formulata con malignità, ma anche con la sincera attrazione per un cammino che dopo un’ importante affermazione può porre le basi dei passi successivi, spostando in avanti la sfida.

Le difficoltà che questo Natale ci pone davanti agli occhi, la guerra mondiale, l’isolamento,  la mancanza di grandi utopie, indicano il bisogno che non solo i cattolici avrebbero di questa nuova fase, da viversi almeno come arricchimento del nostro possibile dialogo, comune. E forse per qualcuno di un nuovo incanto, di cui tanti potrebbero scoprire di avere bisogno.

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