La politica, con la sua sporcizia, sangue, malessere non può essere vista come un terreno di affari o in alternativa missione al martirio di alcuni individui con sprezzo del pericolo. Verso una nuova politica occorre lavorare e qui il ruolo del governo può essere fondamentale
Come spiegava il 29 Dicembre sul Corriere della Sera Sabino Cassese, c’è una profonda frattura politica in Italia che finora nessuno ha affrontato. I partiti hanno smesso da tempo di essere la cinghia di trasmissione tra la società e i vertici del potere. Non hanno più sezioni nel territorio, non reclutano o formano classe dirigente, non ci sono le scuole di partito.
Così il popolo ha smesso di essere rappresentato in parlamento. I partiti sono gruppi di potere che si autoriproducono, per cui il governo che vuole parlare al popolo deve saltare il Parlamento.
Oltre a questo ci sono altri fattori di direzione di marcia. Giovanni Orsina, il 27 dicembre sulla Stampa notava l’emersione di nuove divisioni di classe, citando Luca Ricolfi e Marco Follini. C’è una divisione tra “mondo vissuto” e “mondo pensato”, un tempo i primi erano i conservatori, e vecchie élite, i secondi i progressisti, il popolo.
Oggi si è rovesciato, come sottolinea Ricolfi, perché il popolo è diventato conservatore, in quanto teme e vede il rischio di essere schiacciato dalla nuova ondata di globalizzazione. In tale contesto, spiega Follini, “il tentativo di addomesticare la bestia populista non è consistito in una “vera fatica politica’”.
Questo dramma era in realtà presente anche all’inizio del dibattito socialista nell’800. I ludditi, i distruttori delle macchine che si opponevano all’avanzata del capitalismo, erano sostenuti dalla vecchia aristocrazia terriera che si vedeva depauperata ed estromessa dai nuovi industriali.
I primi socialisti infatti volevano il ritorno al sistema agrario dei commons, le terre coltivate in comune (da cui anche il termine “comunista”) contro chi la terra la voleva privatizzare e meccanizzare per aumentarne la produttività.
La risposta teorica di Marx fu di sostenere che si doveva trovare il futuro nel presente, il futuro che sta emergendo dal presente, e non un futuro astratto che deve essere applicato sul presente come un modello artificiale. Né può essere lo sforzo di mantenere il passato, perché il passato già non c’è più. Al di là del “marxismo applicato” questa lezione di Marx forse è utile per tutti i partiti, di destra o sinistra, che vogliano riprendere un contatto con il popolo.
Quindi forse la “fatica politica”, la ricerca di rappresentanza sociale dei partiti, oggi dovrebbe partire da uno sforzo teorico: individuare qual è la situazione, dove è il nuovo che avanza.
Rispetto alla divisione di qualche anno fa, per cui il popolo si sentiva minacciato dalla globalizzazione, e le élite la abbracciavano perché vi vedevano un loro interesse, la situazione sta radicalmente cambiando.
La guerra con la Russia, e la crisi del Paese più grande del mondo, unita alle tensioni intorno alla Cina, la più grande potenza commerciale del mondo, stanno mettendo fine alla globalizzazione come la conoscevamo.
Le industrie stanno tornando a casa e si sta ridisegnando un nuovo perimetro geopolitico. Esso è ancora molto fluido, e non si sa quando e come troverà una sua forma. Ma di certo oggi non si vedono più i rischi del passato di posti di lavoro, produzioni che emigrano all’estero.
C’è il contrario: mancanza di lavoratori nei Paesi industrializzati. Tali lavoratori devono essere importati dall’estero. Si può discutere il modo e le forme della “importazione” ma essa è necessaria altrimenti semplicemente il sistema va in tilt.
C’è poi un altro problema nei Paesi industrializzati: la popolazione locale “superflua”. Non si fanno bambini, e tra i bambini molti non studiano come dovrebbero. Il risultato è che una percentuale crescente di popolazione è in pensione o vive in uno stato di piccolo o piccolissimo privilegio (sussidi di varia natura) con poche abilità di lavoro utili.
Ciò è particolarmente vero in Italia dove gente al sud vive di micro redditi. Così con il micro reddito, la rete familiare, la casa gratis, se qualcuno andasse dove il lavoro chiama, per esempio al nord, spesso finirebbe con avere meno soldi in banca e vivere peggio.
Né i pensionati che hanno contribuito al Paese per decenni possono essere abbandonati ai morsi dell’inflazione.
Tale sistema però è in corso di cambiamento a seguito del terremoto internazionale che sta ridefinendo i sistemi di produzione nazionale. È come accadeva ai tempi di Marx, quando la rivoluzione industriale avanzava in parallelo con l’avanzata coloniale dell’Inghilterra e delle altre potenze europee. Solo che ora tutto obbedisce a codici ovviamente diversi.
Questo è il contesto della politica italiana, riconosciuta o meno da governo o opposizione. Rispetto a questo non ci sono finora risposte neppure disarticolate.
Quindi lealmente e con grandissima umiltà pensiamo che i partiti dovrebbero ragionare su questo, che non è cosa astratta da lasciare solo ai Cassese, ai Ricolfi o agli Orsina, tutti fuori dal Parlamento. Ma è concreta e centrale per il Parlamento e il governo.
È un problema radicale che per motivi vari non è stato affrontato da molti governi per molti anni e ha portato allo sfarinamento sociale e politico attuale. Queste sono le “colpe dei governi passati” denunciate dal premier a varie riprese nella conferenza di fine anno.
Qui le enormi sfide della giustamente ambiziosa premier Giorgia Meloni, contingenti e di lungo termine, ma anche le mille trappole. Per affrontare tutto occorre uno sforzo titanico di intelligenza e fantasia ma non ci possono essere sconti.
Così benissimo che la premier si sia sottoposta a una maratona di tre ore di conferenza stampa, in cui alcuni giornalisti non hanno spesso dato il meglio di sé, ma forse non è bastato.
Ci sono vari meccanismi psicologici, logici e politici che emergono dalla conferenza stampa, come fa notare l’acuto psichiatra Narciso Mostarda.
Quando si accusano gli altri governi di avere prodotto delle situazioni gravi per il Paese implicitamente si accusano gli italiani che hanno votato quei governi. Però l’attuale governo è in gran parte votato da quegli stessi italiani che cinque anni fa avevano votato per i governi passati. Lamentarsi allora del passato crea un cortocircuito nel popolo italiano.
Anche perché Meloni è oggi presidente del Consiglio proprio perché i governi passati non funzionavano. Se i governi passati avessero funzionato oggi Meloni farebbe altro.
Quindi se Meloni si lamenta del passato si lamenta di essere oggi dov’è. Passa una metacomunicazione secondo cui lei non vuole governare. Se lei invece vuole governare deve proiettare il Paese in avanti non indietro.
Che il Paese sia nei guai lo sanno per primi gli italiani che hanno cambiato opinione e che non hanno bisogno o voglia di sentirsi rimbrottare dei loro sbagli passati.
Il problema vero forse è un altro: il futuro del mondo in che direzione marcia? Quindi a seconda della direzione si possono fare dei passi o altri. Qui la classe politica italiana nel suo complesso non ha trovato un consenso e sembra molto confusa.
Solo un anno fa, il consenso generale era che gli Stati Uniti fossero sconfitti e pronti a spirare, vista la “sconfitta e umiliante ritirata” dall’Afghanistan. Ciò era in linea con le analisi di anni in circolazione nel Paese.
Un anno dopo tutte le previsioni e le analisi passate si sono rivelate bellamente false e però non c’è un consenso alternativo, né c’è visione di futuro del mondo.
Inoltre rimane il nodo irrisolto del rapporto con l’Unione europea, come nota il 30 dicembre su Repubblica Stefano Folli. Questo deve essere affrontato e chiarito a livello di stato di lungo termine, non può essere soggetto a un’altalena di controversie a seconda del vento o del governo in carica.
Rimanere nell’Unione e nell’euro ma lamentarsi pubblicamente e frequentemente di Bruxelles e delle sue decisioni appare puerile, all’estero e all’interno, e quindi assolutamente controproducente. Ci vogliono proposte costruttive.
Questo il dramma oggi più profondo del Paese, dietro il quale le analisi sociali e politiche interne diventano tutte degli azzardi e quindi destinate al fallimento quasi certo.
Infatti, sottolinea Mostarda in un saggio di prossima pubblicazione, c’è un dramma transgenerazionale irrisolto, di mancanza di coraggio collettivo ad affrontare la grande politica. Mostarda scrive: “Sarebbe opportuno prestare attenzione a quello che sembra essere un trauma transgenerazionale. Superare i traumi collettivi parrebbe l’unica via per sbloccare il coraggio e le energie che imbrigliano la collettività. Altrimenti rimaniamo nella logica del sacrificio personale, in cui si collocano gli appassionati del Paese. Il sacrificio personale, che oltre ad essere patrimonio di una parte della morale cattolica che ci permea, ha una tragicità e una solitudine ingiusta”.
La politica, con la sua sporcizia, sangue, malessere non può essere vista come un terreno di affari o in alternativa missione al martirio di alcuni individui con sprezzo del pericolo. Verso questa nuova politica occorre lavorare e qui il ruolo del governo può essere fondamentale.