Davvero il Mek può essere un’alternativa credibile e migliore alla Repubblica islamica? L’intervento di Jacopo Scita, policy fellow alla Bourse and Bazaar Foundation di Londra
Il 29 dicembre 2022, Formiche.net ha pubblicato un intervento di Giulio Terzi di Sant’Agata in cui l’ex ministro degli Esteri, oggi senatore di Fratelli d’Italia, dichiara il proprio endorsment al Mek e alla sua leader Maryam Rajavi come legittima forza di resistenza e in grado di rappresentare “appieno l’essenza e il significato della rivolta in corso in Iran”.
L’endorsement di Terzi mi ha lasciato estremamente perplesso. Il principale punto di perplessità è legato alla storia stessa del Mek e ai conseguenti dubbi sulla genuinità della proposta democratica di Rajavi. Il Mek, acronimo di Mojahedin-e Khalq, ha indubbiamente una storia notevole. Fondato negli anni Sessanta come movimento studentesco marxista-islamista in aperta opposizione allo shah Mohammad Reza Pahlavi, i Mojahedin guidati da Massoud Rajavi, la cui vedova Maryam è dal 2003 la leader del movimento, presero parte alla mescolanza di forze più o meno radicali, islamiche, repubblicane e marxiste che nel 1979 animarono la rivoluzione che destituì la monarchia Pahlavi. Ed è proprio nella quasi guerra civile che scuote l’Iran post-rivoluzionario che le fazioni khomeiniste prevalsero sulle altre componenti rivoluzionarie, imponendo il distintivo carattere islamico della nuova Repubblica anche attraverso la durissima repressione di quelle forze politiche che scelsero di non allinearsi al nuovo spirito del tempo. Vittime delle purghe khomeiniste, i Mojahedin abbandonano l’Iran rifugiandosi nell’Iraq di Saddam Hussein da dove partecipano attivamente alla guerra Iraq-Iran, compiendo diverse operazioni militari in Iran in supporto delle truppe irachene.
Il legame tra il Mek e Saddam Hussein durerà fino all’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Nel 1991, i Mojahedin parteciparono attivamente alle repressioni interne perpetrate dal regime di Saddam Hussein: nel 2010 l’Alto tribunale iracheno ha condannato 39 membri del gruppo, inclusa Rajavi, per crimini contro l’umanità. Dal periodo iracheno del Mek giungono testimonianze terribili riguardo il trattamento subito dai membri dell’organizzazione, costretti al celibato e a sterilizzazioni forzate in un contesto paragonabile a quello di un culto simil-religioso e settario con al centro i leader Massoud e Maryam Rajavi. Costretto dalla crescente influenza iraniana in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein ad abbandonare il Paese arabo e oggi ospitato in un compound militare in Albania, il Mek è stato designato dal dipartimento di Stato americano come organizzazione terroristica dal 1997 al 2012 in ragione delle diverse azioni terroristiche compiute dal gruppo sia verso obbiettivi iraniani che, negli anni Settanta, uccidendo sei cittadini americani. Il Mek e il regime iraniano rimangono coinvolti in un conflitto diretto e indiretto che negli ultimi quattro decenni ha visto atti terroristici (tra cui un piano per assassinare Maryam Rajavi organizzato dal diplomatico iraniano Asadollah Assadi), esecuzioni di massa e uccisioni targettizzate.
Ed è proprio dalla fotografia che emerge guardando oltre la supposta (e certamente accattivante) proposta democratica del Mek che sta il vero paradosso di chi, come per esempio alcuni importanti neoconservatori a Washington (tra cui John Bolton e Rudy Giuliani), auspica che a guidare la resistenza alla Repubblica islamica sia il Mek: come può essere eticamente giusto e finanche intellettualmente onesto auspicare che a sostituire un regime retrogrado, fortemente oscurantista e violento sia un vero e proprio culto, con una storia ancora molto attuale di terrorismo, cooptazione forzata e pratiche, alla luce dei fatti, ben distanti dall’immaginario delle democrazie occidentali?
Qui entra in gioco un secondo punto, più complesso e sfumato, su cui riflettere. Al di là del merito e opportunità di endorsement come quello fatto dal senatore Terzi – che non è soltanto un esponente di spicco del partito che oggi esprime il presidente del Consiglio dei ministri italiano, ma è anche presidente della commissione Politiche dell’Unione europea del Senato – una domanda resta centrale e pressante: quali gruppi o forze sociopolitiche dovremmo supportare nella speranza che le istanze di protesta sollevate dai manifestanti iraniani possano portare a un reale e duraturo cambiamento nel Paese?
Trovare una risposta efficace, ancor più oggi in cui il movimento di protesta emerso dopo l’uccisione di Masha Amini manca di una leadership designata, è assai difficile. Personalmente credo che la scelta più giusta sia quella di ascoltare e amplificare in ogni modo possibile le voci che arrivano dall’Iran, anche a costo di mettere in secondo piano il vociare di una diaspora che oggi si arrabatta e litiga divisa da frustrazioni tanto legittime quanto forse diverse dallo spirito che spinge i giovani iraniani a scendere in piazza. Di sicuro, la galassia che gira intorno al Mek difficilmente rappresenta un’alternativa credibile e migliore alla Repubblica islamica.