Padre Giovanni Sale sul nuovo numero della rivista dei gesuiti, che sarà pubblicato sabato prossimo, analizza le radici profonde ma anche i possibili scenari futuri delle manifestazioni dei giovani in Iran. La riflessione di Riccardo Cristiano
Ufficialmente è dai tempi di una famosa affermazione di Bill Clinton, ma in realtà è da molto prima di allora, che i fatti politici, il consenso o dissenso politico, vengono valutati soltanto in base a un parametro: “Tutto dipende dall’economia, stupidi…”. Eppure, commentando con la consueta puntualità gli importantissimi accadimenti iraniani, la sollevazione in corso dallo scorso settembre, padre Giovanni Sale sul nuovo numero de La Civiltà Cattolica che sarà pubblicato sabato prossimo, scrive: “Le richieste dei manifestanti delle insurrezioni del 2022 non sono direttamente di carattere economico, anche se questo aspetto ha spinto molte persone a scendere in piazza. I manifestanti non chiedono un maggior benessere – sebbene l’inflazione sia salita al 50% e la maggior parte dei giovani siano disoccupati –, ma la fine del regime teocratico degli ayatollah o, come molti studenti hanno dichiarato, di poter «vivere in un Paese normale», dove le elezioni siano libere e le istituzioni dello Stato democratiche”. La misoginia del regime, che pretende di imporre il non precetto islamico del velo alle donne ha dunque innescato un movimento che coinvolge non solo loro, ma i giovani, i cittadini, i diseredati, la borghesia.
La forza di questa chiarezza comunicativa non intende mettere in dubbio soltanto i nostri parametri valutativi, le nostre certezze, ma anche contribuire a comprendere che questa protesta senza leadership riconosciuta ha in questo fatto la sua forza e la sua debolezza: “La mancanza di un centro è un elemento di forza e insieme di debolezza. Va infatti ricordato che tutti i capi dei movimenti che hanno organizzato le sommosse del 2009 e del 2019 sono stati arrestati, uccisi o messi a tacere. Ora, l’attacco del regime prende di mira il mucchio, le migliaia di donne che per settimane hanno sfidato coraggiosamente il regime e le costanti minacce delle autorità militari e religiose. Inoltre, secondo alcuni sondaggi indipendenti, pare che i manifestanti abbiano il sostegno della maggioranza del popolo iraniano, dal 60 all’80%”. Il punto sembra questo: la mancanza di leadership unisce, ma la mancanza di leadership rende difficile il perseguimento di un obiettivo concreto. Per questo, probabilmente, l’autore soggiunge che la strada davanti è ancora lunga. E, si può commentare, non sarebbero le scorciatoie, una comprensibile fretta, la soluzione. Constata con acutezza padre Sale: “Neppure gli ex Presidenti hanno speso parole per sostenere la linea del regime. In precedenza, di fronte alle proteste, il regime aveva invitato i suoi sostenitori a organizzare contromanifestazioni. Il che era avvenuto soprattutto nel 2009. Questa volta i reiterati inviti ad agire sono caduti nel vuoto”. Il discorso riguarda tutto l’approccio alla politica interna iraniana, ma non solo: “I più moderati, anche tra i membri del clero sciita, sono in disaccordo con i provvedimenti di politica interna adottati dall’ayatollah negli ultimi anni, sia nell’ambito dei costumi sia in quello economico, come pure su molte sue decisioni di politica estera. Di fatto, attualmente milizie iraniane sono presenti in Libano, destabilizzano l’Iraq e conducono guerre per procura in diversi Paesi, come Siria e Yemen. Non va poi dimenticato che l’Iran è uno dei pochi Paesi che appoggia e fornisce armi ai russi”. La sfida dunque ha valenza regionale e visto di quale regione parliamo e quali interessi coinvolga anche globale.
Padre Giovanni Sale così allarga lo sguardo: “Secondo alcuni analisti, i Paesi occidentali durante questi mesi si sono limitati a osservare quanto accadeva in Iran. Continua il silenzio della parte buona del mondo. Per ragioni di geopolitica e di affari, il consesso delle nazioni democratiche si è limitato a manifestare preoccupazione, disappunto, senza però intervenire in modo deciso, anche attraverso le organizzazioni internazionali, in difesa della protesta delle donne. Questo sia in Iran sia in Afghanistan, dove ormai vige un vero e proprio apartheid di genere”.
Ma cosa si potrebbe fare? Ulteriori sanzioni economiche colpirebbero la popolazione più che il regime, la raccolte di firme è un’altra forma di solidarietà diffusa, come la denuncia da parte delle cancellerie degli arbitri ed abusi da parte delle autorità iraniane. Ma in risposta a tutto questo il presidente Raisi ha risposto così: “Non mostreremo misericordia al nemico. Le braccia sono aperte a tutti coloro che sono stati ingannati”. Padre Sale, commentando questo stato di cose, osserva che una parte del regime, pur accusando l’Occidente di strumentalità, appare consapevole che la repressione non può durare in eterno.
È forse questo il motivo per cui l’articolo appare mosso dall’attenzione ai tempi lunghi? La considerazione che padre Sale premette alla sua analisi è quella, oggettivamente convincente, del parallelo con la primavera araba: come lì fu un umile giovane tunisino a innescare la protesta della dignità, qui è stata la giovane di origine curde (uccisa perché non indossava correttamente il velo) a fare altrettanto. Dunque è importante non ripetere lo stesso errore: “La lotta dei giovani iraniani contro il regime degli ayatollah continua, e probabilmente con il passare del tempo riuscirà, in qualche modo, a cambiare il Paese, anche se non ad abbattere la Repubblica islamica. […] Va però tenuto presente che al regime in carica in Iran, che viene denunciato come corrotto e integralista, potrebbe subentrare un regime anche peggiore, come è accaduto in alcuni Paesi arabi, cioè un regime militare nazionalista”. La deriva siriana, con la scusa magari della laicità nazionalista e qualche sostegno internazionale, leggendo mi è tornata alla mente. I pasdaran in effetti potrebbero prenderla in considerazione.