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Regionali Lazio, i futuri compiti del neo-presidente secondo Polillo

Le Regione Lazio si sta meridionalizzando sempre più. Assumendone le relative caratteristiche: crescita sempre più asfittica, una prevaricazione del pubblico (a partire dagli eccessi di tassazione), uso improduttivo delle risorse a propria disposizione, alto debito pubblico. Da questo c’è solo una via di fuga: quella della maggior crescita. Alla quale attrezzarsi fin da subito. L’analisi di Gianfranco Polillo

Il prossimo presidente della Regione Lazio, chiunque sia, non avrà un compito facile. Al di là delle inevitabili vanterie, che caratterizzano ogni competizione elettorale, il lascito delle passate amministrazioni non è dei migliori. Troppe e da troppo tempo le cose che non vanno. Soprattutto sul piano sociale. A partire da un tasso di disoccupazione ancora troppo alto, nonostante i miglioramenti intervenuti, che, nel terzo trimestre di quest’anno, è quasi il doppio di quello lombardo: 7,4 contro il 4,7 per cento. O dei livelli di occupazione. Anch’essi in leggera crescita dal 2021, ma meno di quanto sarebbe necessario: considerato che nel terzo trimestre del 2022 esso era pari al 61,6 per cento: un valore di frontiera prima del grande baratro meridionale.

Dati che fanno intravedere quanto sia diventato difficile vivere in una regione che, anni addietro, era capace di offrire molto di più, collocandosi ben oltre il sentiero dello sviluppo nazionale. Mentre oggi deve registrare un progressivo impoverimento che trova riscontro negli stessi andamenti demografici: ben peggiori del pur preoccupante fenomeno nazionale. Dal culmine del 2014, quando la popolazione italiana aveva raggiunto la vetta di circa 60,8 milioni di abitanti, gli ultimi dati, relativi al 2021, mostrano un valore di poco superiore ai 59 milioni. Con una perdita di presenze (2,9 per cento) che sfiora un milione ed 800 mila casi. Il contributo del Lazio è pari al 3,04 per cento. Perno di una polarizzazione demografica che vede di nuovo le Regioni del Nord accrescere il loro peso specifico, quasi nel replicare i fenomeni migratori del dopoguerra, seppure ad un livello di intensità incommensurabile.

Dati che offrono l’immagine di un Paese sempre più diviso, con una parte del suo territorio, guidato dalla regione più forte – la Lombardia – che cresce e si espande nelle zone vicine; mentre la sua seconda Regione – il Lazio, appunto – si meridionalizza sempre più. Assumendone le relative caratteristiche. Che sono poi quelle di una crescita sempre più asfittica, di una prevaricazione del pubblico (a partire dagli eccessi di tassazione), di un uso improduttivo delle risorse a propria disposizione, di un debito pubblico che non si riesce a far diminuire con la necessaria celerità.
Sono gli stessi dati ufficiali – Istat e Banca d’Italia – ad offrire l’immagine di questa realtà. E mostrare come non era andata sempre così. Anzi, con la nascita dell’euro, la Regione Lazio aveva decisamente imboccato la strada della crescita competitiva. All’inizio del nuovo millennio il suo peso specifico, sugli equilibri nazionali, era ancora pari al 10,9 per cento. In poco meno di dieci anni, grazie ad un ritmo annuo di crescita superiore a quello medio nazionale, aveva guadagnato quasi un punto di Pil, raggiungendo il suo apice: 11,7 per cento del Pil nazionale. Erano stati quelli gli anni di Francesco Storace e Piero Marrazzo. Figure anche controverse, ma comunque in grado di accompagnare la regione lungo una prospettiva di crescita relativa.

La netta inversione si avrà invece a partire dall’anno successivo, dopo la breve parentesi di Esterino Montino (sei mesi) a causa delle vicende che avevano portato alle dimissioni di Marrazzo. Gestione non fortunata, quella successiva di Renata Polverini, alle prese con una doppia crisi. Il rimbalzo in Italia del fallimento della Lehman Brothers da un lato; lo scandalo, dall’altro, che passerà alla storia con il nome di “rimborsopoli”. Soldi pubblici elargiti a destra e manca tra i consiglieri regionali, dietro presentazione di giustificativi di spese di cui nessuno controllava l’effettiva legittimità. Problema che, per la verità, non fu esclusivo del Lazio, ma coinvolse altre realtà regionali. Nel caso della Pisana fu, comunque, la buccia di banana che, alla fine portò alle dimissioni di Renata Polverini, il 12 marzo del 2013. Iniziava da allora il lungo regno di Nicola Zingaretti.

Nel frattempo il declino regionale diveniva sempre più evidente. Nel 2013 il Pil regionale, in termini reali, rispetto a quello nazionale, diminuiva di 0,3 punti, portandosi all’11,4 per cento. Sarà così, pur tra piccoli alti e bassi, in tutto il periodo successivo. Alla fine del 2021, ultimo dato disponibile, il Pil del Lazio risulterà essere pari all’11,1 per cento del prodotto nazionale lordo italiano. Un valore esattamente pari a quello del 2001. Dopo un lungo peregrinare si tornava al punto di partenza: l’anno della nascita dell’euro. Due decenni buttati al vento.

Com’è potuto accadere? Come è stato possibile non vedere, in quel lungo periodo che va dal 2009 al 2021 che le cose non andavano più come prima? E che, quindi, qualcosa doveva pur cambiare? C’erano, indubbiamente, i limiti tipici del regionalismo italiano. Quel localismo che impediva ai singoli amministratori di vedere oltre i confini del proprio territorio e dei propri interessi di bottega. Limite non solo dei politici, ma, seppur con qualche eccezione, come nel caso della Lombardia, degli stessi tecnici che operavano all’interno delle singole amministrazioni. Nel caso del Lazio, tuttavia, queste colpe, per quanto comuni, recavano in sé un aggravante. La regione, dal 2013, era nelle mani di un leader nazionale di uno dei più forti partiti politici italiani. Come si ricorderà Nicola Zingaretti, dal marzo del 2019 al marzo del 2021, era stato, addirittura, segretario del Pd. E il governo nazionale aveva tutte le caratteristiche del “governo amico”. Eppure, nonostante queste circostanze favorevoli, non era successo alcunché.

Spiegazioni, quindi, non facili da trovare, se non il tradizionale disinteresse per i temi dello sviluppo. Roba da lor signori: come si diceva una volta. Quando compito della sinistra era quello di leggere la realtà con gli occhi di chi soffre. Meglio allora occuparsi delle semplici diseguaglianze e, se del caso, far si che “anche i ricchi potessero piangere”. Si spiega così l’accanimento fiscale. Come certificato, per il 2020, dalla stessa analisi del Mef – Dipartimento delle finanze, secondo il quale: “L’addizionale regionale media varia dal minimo di 270 euro in Sardegna al massimo di 630 euro nel Lazio, mentre l’addizionale comunale media varia dal minimo di 90 euro in Valle d’Aosta al massimo di 260 euro nel Lazio”. Si tratta com’è noto delle principali imposte su cui si esercita la potestà legislativa delle regioni. Poca cosa, si potrebbe dire, stando ai numeri, se un simile atteggiamento non fosse rilevatore di una cultura ben più pervasiva.

A dimostrazione di quanto detto, va solo ricordato che nel 2022, a seguito delle modifiche introdotte negli scaglioni Irpef, a livello nazionale, la regione Lazio, al pari delle altre regioni, ha dovuto modificare la disciplina relativa alle addizionali. E lo ha fatto, in peggio, non solo mantenendo il primato dell’accanimento. L’aliquota in assoluto è sempre la più alta. Ma, in più, ha mantenuto un extra prelievo dello 0,5 per cento ch’era dovuto per far fronte al piano di rientro sanitario, chiuso da tempo (primavera del 2020). Quindi palesemente illegittimo. Come candelina sulla torta, la stessa legge garantiva un bonus di 300 euro per i redditi con un imponibile inferiore a 40 mila euro annui. Risultato? Il loro quasi completo sgravio. Per cui l’intero gettito dell’addizionale graverà sui percettori un reddito maggiore. Sui ricchi, appunto. Con buona pace di qualsiasi criterio di progressività. Trasformato in puro e semplice saccheggio.

Ci si può sorprendere, allora, se nel frattempo, di fronte ai limiti di una visione più complessiva, il debito sia progressivamente cresciuto? Secondo i dati di Banca d’Italia, esso è passato dall’8,1 per cento del Pil laziale del 2001, al 14,7 del 2021. La progressione è stata continua, con un piccolo décalage, tra il 2009 ed il 2011. Quindi un balzo successivo (16,3 nel 2015) e infine il calo ai valori indicati in precedenza. Va aggiunto che nel giugno 2021 il Lazio vantava il non nobile primato di essere il principale responsabile (24,2 per cento) dell’alto debito regionale complessivo (oltre 120 miliardi di euro). Al secondo posto la Campania, ma con una percentuale di gran lunga (13,6 per cento) inferiore. Piccole grandi pene, insieme ai punti indicati in precedenza, che graveranno sulla testa del neo-presidente. Al quale va naturalmente tutto il nostro augurio. Ma anche il consiglio, per quanto non richiesto. Dalla trappola del declino e dell’alto debito c’è solo una via di fuga: quella della maggior crescita. Alla quale attrezzarsi fin da subito.



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