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Le vere ragioni di Putin secondo De Giovanni. L’analisi di Polillo

Quella di Putin sarà soprattutto una sconfitta di carattere politico, ma con effetti immediati sia sul fronte militare che economico-finanziario. E allora le cose torneranno al loro posto. Questo almeno l’auspicio. Che, tuttavia, non tiene conto delle mille sofferenze imposte ad un popolo senza voce – i russi – e alle vittime principali di questa follia: gli ucraini. Ma tutto ciò fa parte, purtroppo, del “legno storto” della storia. Gianfranco Polillo legge l’analisi di Biagio De Giovanni

Il commento di Biagio De Giovanni, dalle pagine de Il Corriere della Sera, (La guerra scatenata da Putin – Questo scontro è carico di filosofia) per la serietà delle argomentazioni portate, merita un commento. E una discussione.

Suo merito principale è stato quello di mettere con le spalle al muro la galassia dei pacifisti. Di coloro cioè che si ostinano a dire: “Ma la colpa è soprattutto della Nato agli ordini di Washington”. Oppure “quella del Donbass è stata una lunga guerra civile in cui i russo-fili sono stati massacrati dai filo occidentali”. Fatti ed episodi che hanno anche una base di verità. Ma soprattutto il torto di non far comprendere le ragioni vere di un conflitto, che ha soprattutto una portata geopolitica.

De Giovanni pone soprattutto questo secondo aspetto al centro della sua analisi. E lo fa andando fino in fondo, nella ricerca delle ragioni più vere di quella contrapposizione che sta mutando il volto della storia. Per questo “lo scontro in atto è carico di filosofia”. Da una parte, infatti, “un potere orientale” che “chiede solo obbedienza in presenza di scopi assoluti, e che usa la crudeltà come mezzo” per la sua legittimazione. La storia più antica della Russia: da sempre “quasi armata di una metafisica sull’idea di uomo, sull’isolamento di chi domina e chiede solo obbedienza, in vista di una missione”.

In difesa dei caratteri peculiari di una storia che è riassunta nel mito di Santa madre Russia. Dall’altra parte il “potere occidentale” che ha come suo fondamento la religione “della libertà”. Di quella forza che, nei secoli, ha consentito al mondo intero, seppure non senza limiti e contraddizioni, di svilupparsi e progredire. E di cui l’Europa non solo fa parte, ma è essa stessa “civiltà della libertà, dove il potere non può chiedere solo obbedienza”. Il dispiegarsi di quelle libertà, infatti, ha consentito non solo all’Occidente, ma al mondo intero di progredire. Il che è avvenuto solo grazie alla crescita dei sistemi produttivi, lo sviluppo degli scambi, le grandi aperture verso l’intero pianeta.

Furono le grandi intuizioni di David Ricardo sul commercio internazionale ad orientare le scelte di chi, grazie a Manchester, aveva ormai raggiunto quella supremazia economica e finanziaria ch’era indispensabile per il lungo viaggio oltre le Colonne d’Ercole. Intuizioni destinate non solo a ricollegarsi con la storia più antica: dai Fenici ai Romani fino al Rinascimento. Ma a fornire, con le teorie del vantaggio comparato, le chiavi moderne per alimentare uno sviluppo sempre più diffuso tra i quei Paesi che si aprivano verso la contaminazione e al meticciato. L’esatto contrario di quanto avveniva in quella parte di mondo dominata dagli Zar. In cui lo stesso genio di Dostoevskji, alla fine, si arrendeva, per rinchiudersi nella grande prigione di Santa madre Russia.

Solo Lenin aveva cercato di rompere quel muro, tentando di amalgamare il populismo russo con i principi del marxismo scientifico. Per questo aveva rotto con la II Internazionale, dando vita a un esperimento ch’era riuscito solo grazie agli orrori della Grande guerra. Quel momento di follia che aveva portato alle grandi carneficini degli inizi del ‘900. La sua parola d’ordine “guerra alla guerra” aveva conquistato il cuore e la mente di operai e contadini. E, nello spazio di un mattino, aveva portato i bolscevichi, in precedenza minoranza tra i rivoluzionari russi, a conquistare la leadership del movimento. Preso il potere, la pace separata di Brest-Litovsk dimostrò che la rivoluzione poteva anche significare coerenza. La Russia usciva dalla guerra, anche a costo di perdere gran parte del suo territorio: dalla Polonia alle attuali Repubbliche baltiche.

Terre destinate ad essere riconquistate all’indomani della Seconda guerra mondiale. Con Stalin che, nel frattempo, era succeduto a Lenin ed aveva riportato il pendolo verso l’oscurantismo zarista. Altro che la democrazia vagheggiata dagli artefici della Rivoluzione d’ottobre. Era nuovamente il potere che chiedeva solo “obbedienza”. Quel ritorno all’antico che lo stesso Putin, in diversi interventi, non ha esitato ad esaltare, mettendo in croce Lenin e portando Stalin alle stelle. Ed è sorprendente scorgere, negli avvenimenti più recenti, non solo la totale negazione degli episodi più nobili di quella storia, ma il loro completo ribaltamento dialettico.

Alla vecchia parola d’ordine “guerra alla guerra” che era necessaria per salvare la vita dei proletari, Putin contrappone la Z dell’invasione brutale. Il bombardamento massiccio delle strutture civili, per fiaccare lo spirito della popolazione. Dice di voler combattere i nazisti, utilizzando, tuttavia, quegli stessi mezzi contro un popolo, che lotta ormai per la propria libertà. Come al tempo della battaglia d’Inghilterra, con i bombardamenti su Londra. O com’era avvenuto in Ungheria nel ‘56 o in Cecoslovacchia durante la “primavera” del ‘68. Ed al tempo stesso minaccia. Vorrebbe annullare il trattato di Brest – Litosk, per riportare i confini della Russia al tempo degli Zar. Per rimettere indietro le lancette dell’orologio, annullando di colpo quasi un secolo di storia.

Progetto pericoloso, ma soprattutto velleitario. Sebbene supportato dall’arsenale nucleare, che rappresenta, tuttavia, l’anticamera di un suicidio collettivo. Ed è, quindi, per definizione inutilizzabile. Escluso l’olocausto, quale prospettiva può dare il vagheggiare una sorta di autarchia integrale? Lo sviluppo delle forze produttive ha raggiunto un punto tale da risultare incompatibile con rapporti di produzione di quella fatta. Lo si è visto nelle difficoltà incontrate nel far rispettare le sanzioni decise proprio contro la Russia. Ed allora non rimane che impedire a Putin di raggiungere gli obiettivi che si proponeva con la “missione speciale”, aiutando Zelensky in tutti i modi possibili.

Nel frattempo andrà rafforzato ogni legame possibile con quel che resta del mondo globalizzato, senza cedere di fronte alla voglia di fare da sé. La maggior parte del pianeta – Cina in testa – è allineata su questa prospettiva. Nè Putin è in grado di sostituirsi all’Occidente, il cui peso relativo, in termini di consumi, popolazione, reddito e via dicendo, è decine e decine di volte superiore alla Russia. Alla fine qualcuno sarà costretto a cedere. La sua sarà soprattutto una sconfitta di carattere politico, ma con effetti immediati sia sul fronte militare che economico-finanziario. Ed allora le cose torneranno al loro posto. Questo almeno l’auspicio. Che, tuttavia, non tiene conto delle mille sofferenze imposte ad un popolo senza voce – i russi – ed alle vittime principali di questa follia: gli ucraini. Ma tutto ciò fa parte, purtroppo, del “legno storto” della storia.



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