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Fiori di carta di giugno 2011

Nella storia dei grandi c’è posto – deve esserci posto – anche per quella degli umili, così Alessandro Mari ha raccontato la storia degli anni Quaranta del Risorgimento, quelli decisivi durante i quali matura la voglia di cambiare il mondo, attraverso quattro storie esemplari, che si intrecciano talvolta tra loro e poi incrociano il destino dei protagonisti del Risorgimento della patria.
A dire il vero una delle storie è sin dall’inizio di un grande, visto che il protagonista è il Garibaldi sudamericano, che si batte per la libertà e si innamora perdutamente di Anita, bella e sensuale come nessun’altra, e poi torna in Italia non appena lo raggiunge la notizia che è l’ora di passare all’azione.
Il punto di partenza di Troppa umana speranza (Feltrinelli, pp. 764, euro 18,00) in ogni caso è Colombino, un ragazzo di campagna che accompagnato dal fedelissimo asino Astolfo gira il paesino di Sacconago nel varesotto, nei pressi di Busto Arsizio, dove vive allevato dal parroco don Sante, distribuendo letame benedetto – «menar merda non è poi una mala occupazione» – in cambio di legna da ardere o di qualsiasi altra cosa utile, e che, rimasto solo e vistosi rifiutato dalla ragazza che ama ostinatamente, parte alla volta di Roma alla ricerca di una protezione papale.
 
Le avventure di Colombino attraverso quell’Italia premoderna rivelano le esplosive contraddizioni tra un mondo semplice e primitivo, ricco di buoni sentimenti e generosi entusiasmi, e una società eccitata dalle meraviglie del progresso tecnologico, scossa dalle tensioni sociali, resa elettrica da nuove ideologie.
Ecco, dunque, parallele alla storia di Colombino, quell’altra di Leda, addestrata a diventare la spia di un oscuro potere reazionario e costretta a pedinare Giuseppe Mazzini in una Londra affollata e turbolenta, dove lei si innamora di un giovane seguace dell’apostolo, che verrà brutalmente ucciso per richiamarla ai suoi loschi doveri, cosicché non le resterà che vendicarsi; e di Lisander, mediocre e scapestrato pittore di ritratti prevalentemente femminili, che nella Milano modernista si trasforma in fotografo di donnine nude, inserendo la sua «callopornie» in uno squallido mercato clandestino, nel quale finirà per perdersi e rovinarsi.
 
Colombino diventerà attendente di Garibaldi, Lisander proteggerà Leda dai suoi persecutori e tutti saranno travolti dalla rivoluzione del ‘48, che farà assaporare l’entusiasmo di un mondo nuovo più libero e gioioso, per poi restituire l’antico, persino più aggressivo e violento, lasciandosi dietro una lunga scia di sofferenze e di dolori.
Insomma, l’avvento della modernità non è affatto luminoso e lineare, anzi torbido e contorto, lento nel suo interminabile andirivieni tra speranze e delusioni, anche se il desiderio di cambiare, l’ansia di libertà, resistono più forti di qualsiasi restaurazione, e intanto, se non il mondo, si trasforma il destino degli uomini, di ognuno di loro.
Mari ha costruito con visionaria immaginazione il romanzo di un Risorgimento al tempo stesso sconclusionato e perdente, ma anche necessario e coraggioso, che nel ‘48 si ferma battuto, ma che conserva intatta le energie per ricominciare da capo; un Risorgimento di eroi e sconosciuti, evocato ricorrendo a «ogni sorta di fonte», accumulando documenti e testimonianze, ma poi reinventato con allegrezza e «fascinazione», senza rinunciare ai colori accesi e quasi fiabeschi del poema popolare che scorre potente come un fiume in piena.
Mari non nasconde i suoi debiti col feuilleton ottocentesco, anzi li esibisce come un’insegna, perché Dickens, ad esempio, «ciò che descrive te lo lascia dentro gli occhi», e lui si impegna a fare altrettanto, e ci riesce.
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