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Come ti racconto la guerra in Ucraina. Un anno di InfoOps del Cremlino

Di Federico Berger

Nel solo 2021, il budget del Cremlino dedicato a portali e testate di propaganda controllati in maniera diretta si attestava attorno al miliardo e mezzo di dollari (lo 0,5% del budget federale totale). Nel primo trimestre del 2022 si stima che questa spesa sia addirittura triplicata, senza contare che… L’analisi di Federico Berger

Il 24 febbraio sancirà il triste scoccare dei 365 giorni dall’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Mosca e l’inizio di conflitto che promette di ridisegnare profondamente lo scacchiere di sicurezza del continente europeo. Un momento di opportuna riflessione tanto dal punto di vista militare, politico e umanitario, quanto sotto il profilo della comunicazione strategica e delle operazioni di influenza informativa legate alla guerra (attività spesso bollate con la generica etichetta di Infowar). Un tema al quale il Centro di Eccellenza per le Comunicazioni Strategiche della Nato (StratCom CoE) di Riga ha dedicato l’evento “How to lose the information war: a case study of Russia”, un meeting di presentazione di alcuni studi selezionati relativi alle attività di InfoOps orchestrate dal Cremlino prima, durante e dopo lo scoppio delle ostilità con Kyiv.

Proprio nelle fasi immediatamente precedenti all’invasione militare è stato possibile, ma solo a posteriori, identificare alcuni cosiddetti “segnali deboli” delle intenzioni del Cremlino guardando alle comunicazioni istituzionali e alle informazioni provenienti dai media controllati dal Governo centrale e destinate all’audience interna. Prendendo a campione i mesi a ridosso del 24 febbraio, il think tank lituano DebunkEU ha osservato come nei messaggi televisivi e negli articoli governativi sull’Ucraina, con il passare del tempo, le parole chiave associate al Paese confinante siano state man mano impiegate in corrispondenza dei massimi picchi della curva di attenzione del pubblico. Mentre il 24 febbraio si avvicinava, i media pro-Cremlino hanno così tentato di porre all’attenzione dell’opinione pubblica russa la questione ucraina e la sua gravità, considerando che tra le keyword più impiegate figurano le accuse di Nazismo, la crescente corruzione di Kiev e l’atteggiamento aggressivo della Nato nell’area. Non è un caso che il Governo centrale possa disporre di tecniche e strategie così sofisticate. Nel solo 2021, il budget del Cremlino dedicato a portali e testate di propaganda controllati in maniera diretta si attestava attorno al miliardo e mezzo di dollari (lo 0,5% del budget federale totale). Nel primo trimestre del 2022 si stima che questa spesa sia addirittura triplicata, senza contare che in materia di InfoOps ci sono a libro paga anche i servizi segreti, oltre a diversi think tank e organizzazioni di vario genere.

Dopo una fase iniziale di comunicazione proattiva, Mosca è stata costretta a ripensare la propria strategia propagandistica. Con una comunicazione frustrata dai deludenti risultati sul campo di battaglia e limitata da sanzioni e restrizioni nello spazio informativo, il Cremlino si è trovato costretto a rimodulare le proprie attività di influenza in maniera adattiva. Ecco quindi spiegata la creazione di un vero e proprio ecosistema online composto da più di 2.000 canali pro-Russia su Telegram, piattaforma con una più blanda policy di regolamentazione dei contenuti rispetto al gruppo Meta o agli ambienti Google. Gli admin di queste istanze di messaggistica diventano così i pilastri centrali all’interno del processo: associate al Cremlino ma con un discreto grado di libertà operativa, queste figure sono estremamente funzionali a riempire i vuoti comunicativi delle istituzioni russe. Come nel caso del massacro di Bucha, in cui la risposta alle accuse della comunità internazionale, ribaltandole a sfavore delle forze armate ucraine, è emersa dagli amministratori di uno di questi canali venendo poi riportata dagli ufficiali di Mosca anche alle Nazioni Unite. Nonostante le ultime scoperte, in questa rete di canali rimane ancora da investigare quale sia la catena di comando del processo di creazione e distribuzione delle varie narrazioni, se vi sia una leadership unica e quanto possa essere decentralizzato il sistema.

Nonostante le sanzioni abbiano ridotto sensibilmente lo share dei messaggi del Cremlino tra il pubblico occidentale, un altro sistema efficiente portato avanti sui social media è stato quello del repost di messaggi di personalità pubbliche, specialmente su Twitter e Telegram. Mentre le Big Tech danno la caccia a gruppi di account fake, troll, e bot automatizzati, diffondere le informazioni condivise da profili di ministri, alti ufficiali e politici sulla piattaforma di Elon Musk o in gruppi di messaggistica si è dimostrato un buon metodo per aggirare i team di sicurezza delle piattaforme. Non a caso, proprio Telegram è stato lo strumento che in Russia ha conosciuto la maggior crescita di utenti tra gennaio e luglio 2022 registrando un +66%, seguito da VKontakte (+10%) e YouTube (+5%). A crollare, come prevedibile, sono stati social network americani Instagram (-72%) e Facebook (-79%), mentre è rimasto più stabile TikTok (-5%).

Infine, sempre Telegram ha prestato il fianco a un’altra attività sospetta di InfoOps etichettata come “riciclaggio informativo”. Questo tipo di tecnica consiste nell’offuscare la fonte di un’informazione concepita a scopo propagandistico tramite una catena di menzioni sistemiche tra fonti diverse, nel tentativo di farla apparire legittima e super partes agli occhi del lettore. L’attività si compone di tre fasi distinte: il posizionamento dell’informazione in un determinato dominio o network, la stratificazione del messaggio tramite istanze diverse, e a concludere l’integrazione del contenuto all’interno dell’infosfera. Per esempio, alcuni canali pro-Russia condividevano articoli presi da forum, blog, portali di news online, o alte istanze Telegram che se consultati menzionavano un’ulteriore link come fonte primaria del pezzo in questione. Approfondendo il network di rimandi, è stato possibile stabilire come in realtà non esistessero documenti o testimonianze ufficiali dei fatti riportati dall’articolo di partenza.

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