L’idea è semplice: introdurre nelle cellule un gene con un valore terapeutico in modo da curare pazienti affetti da malattie fino ad ora incurabili. Tuttavia, tra il dire e il fare ci sono di mezzo dettagli che per molto tempo hanno reso impossibile l’uso della terapia genica.
Agli inizi degli anni 90 la terapia genica era vista come una tecnica in grado di rivoluzionare la medicina con la promessa di curare pazienti affetti da malattie genetiche devastanti e tumori. E questa promessa aveva suscitato l’interesse non solo di scienziati e dei media ma anche di un gran numero di investitori privati. Come in tutte le cose quando la promessa rimane tale per molto tempo la gente si disinnamora. Ancora di più quando arrivano insuccessi. Ma in questi mesi, dopo anni bui, una serie di successi sensazionali, di cui due condotti dal gruppo Italiano del Prof. Naldini al San Raffaele e pubblicati su Science, una delle Riviste scientifiche più prestigiose, potrebbero rinvigorire l’interesse per questa tecnologia e dare speranze a molti malati.
Ma procediamo con ordine. Come ho detto l’idea di base della terapia genica è quella di introdurre un pezzo di DNA contenente un gene di interesse terapeutico nelle cellule di un paziente in modo da curare la malattia da cui è affetto. Ad esempio nel caso di uno degli studi pubblicati da Naldini si trattava di impedire l’accumulo di una sostanza tossica nel sistema nervoso, che si traduce in enormi deficit cognitivi e motori. I bambini affetti dalla forma grave di leucodistrofia metacromatica (MLD), questo è il nome di questa sindrome, muoiono nel giro di pochi anni dall’esordio dei sintomi e gli attuali trattamenti sono inefficaci. Quasi due anni dopo la terapia, più del 60% dei globuli dei pazienti esprimeva l’enzima che evita l’accumulo del matabolita tossico.
Come si può facilmente immaginare il problema di questo tipo di esperimenti è quello di introdurre il gene terapeutico nelle cellule importanti per il tipo di malattia considerato. Ma è anche importante riuscire ad introdurre il gene in un numero sufficiente di cellule perché il trattamento sia efficace. Ed evitare che il gene si perda o non venga più espresso rendendo inutile il trattamento. Questi problemi tecnici hanno impiegato per anni i ricercatori. La strategia che si usa per introdurre efficacemente il DNA nelle cellule è di farlo veicolare attraverso “vettori” che derivano da virus modificati. Un virus è fatto apposta per infettare ed introdurre con grande efficienza il suo materiale genetico nelle cellule. Se si sostituiscono i geni tossici con quelli utili per il paziente il gioco è fatto. Oggi, grazie a decenni di ricerca di base, la manipolazione dei genomi dei virus e la produzione in laboratorio di dei virus ricombinanti utili per la terapia è una cosa relativamente facile.
Ma il virus scelto come vettore può essere un problema. Ad esempio l’uso dell’Adenovirus, un virus che causa una forma comune di influenza, ha rappresentato un problema grave per lo sviluppo della terapia genica. Nel 1999 il gruppo di James Wilson uno dei guru nel campo, fondatore e direttore dell’istituto di Terapia Genica dell’Università della Pennsylvania, ha utilizzato questo virus per curare la OTCD, una malattia genetica che rende i pazienti incapaci di digerire le proteine. La metà dei bambini affetti (1 bambino affetto ogni 80.000 nati) muore nei primi 5 anni di vita. Il primo paziente trattato è morto. Questo ha giustamente ritardato lo sviluppo della terapia genica nel mondo in attesa che si riuscisse a capire cosa era successo. Come si è scoperto successivamente, la morte del paziente è stato causata dall’eccessiva risposta immunitaria contro l’adenovirus. Studi successivi hanno permesso di sviluppare sistemi più sicuri basati su un piccolo virus a DNA noto come AdenoAssociato (AAV) che non produce patologie e che offre il vantaggio di inserirsi in una posizione specifica del genoma umano. Tipi differenti di AAV mostrano preferenze per cellule differenti, alcuni per cellule muscolari altri per il fegato o il cervello. L’Unione Europea ha recentemente autorizzato una sperimentazione che utilizza AAV1 per trattare pazienti non in grado di processare i trigliceridi. Con AAV8 si è sviluppato un vettore per trattare i pazienti con OTCD o per i pazienti emofilici.
Il gruppo Italiano di Naldini al San Raffaele, invece, per trattare i pazienti affetti da leucodistrofia metacromatica (MLD) e da sindrome di Wiskott-Aldrich utilizza dei vettori basati sul virus HIV, un esempio di come un virus letale possa venir trasformato in uno strumento per curare.
Ma terapia genica non significa solo malattie genetiche. Il gruppo di Carl June, all’Università della Pennsylvania, ha utilizzato con successo la terapia genica per curare pazienti terminali affetti da leucemia. Su 12 pazienti trattati con linfociti T ingegnerizzati 9 hanno risposto positivamente e 3 di questi non mostrano più segni di malattia. Ovviamente la cosa è ancora in una fase sperimentale e siamo ben lontani da pensare di poter curare i pazienti affetti da tumore con questa tecnologia. Ma questo successo ha aperto nuove speranze rivoluzionando il nostro modo di pensare una cura per il cancro e ha suscitato l’interesse di grosse industre farmaceutiche come la Novartis.
Insomma dopo anni di insuccessi forse (e sottolineo forse) la terapia genica sta cominciando a realizzare le sue promesse.