Dario Cristiani, senior fellow presso il German Marshall Fund, commenta con Formiche.net la linea del governo: “Qualcuno in Italia tende a sottolineare che la postura di Roma verso Washington sia di comodo in questo momento per accreditarsi. Invece c’è stata un’evoluzione dell’approccio di politica estera del premier, dimostrato con gli atti concreti di questi primi mesi di governo”
L’evoluzione delle relazioni con la Cina rappresenterà un altro banco di prova per il governo Meloni rispetto alle relazioni con gli americani, ma più in generale negli Usa c’è la percezione che l’attuale governo sulle questioni di esteri sia estremamente affidabile rispetto al rapporto transatlantico.
Questa l’opinione di Dario Cristiani, senior fellow presso il German Marshall Fund, che Formiche.net ha raggiunto telefonicamente a Washington all’indomani della visita negli Stati Uniti del ministro degli Esteri Antonio Tajani, e che ha analizzato l’universo delle relazioni italo-americane sotto diversi punti di vista.
Il viaggio di Tajani e l’incontro con il Segretario di Stato, Anthony Blinken, rafforzano ulteriormente l’asse italo-americano e chiaramente la postura euroatlantica che il governo Meloni ha assunto sin dal suo primo giorno di vita?
Negli Usa c’è la percezione che l’attuale governo sulle questioni di esteri sia estremamente affidabile rispetto al rapporto transatlantico. Quando ci sono state le dimissioni di Mario Draghi all’inizio della crisi e lo scioglimento del Parlamento, alcuni diplomatici esperti americani con conoscenza dell’Italia avevano espresso qualche dubbio. C’era un po’ di paura rispetto all’esperienza del presidente in pectore già a luglio, Giorgia Meloni, e rispetto sia alle posizioni della Lega che alle posizioni di alcuni dentro Forza Italia. Ma, in seguito, la collocazione di determinate persone che si occupano di esteri, accanto alla postura di questi primi mesi, ha dimostrato che quelle paure erano in sostanza infondate.
Inoltre il fatto che ci siano costanti contatti ad alto livello, come la visita di Tajani dimostra e come anche il contatto tra il presidente Biden e la presidente Meloni in Polonia, ne è ulteriore conferma. Non si tratta di tattica, come qualcuno in Italia tende a sottolineare. Invece c’è stata un’evoluzione dell’approccio di politica estera della presidente Meloni, dimostrato con gli atti concreti di questi primi mesi di governo, anche nei momenti in cui ci sono state uscite poco congrue di alcuni azionisti politici della maggioranza. L’idea è che queste uscite non rappresentino null’altro che opinioni personali, che non toccano la sostanza del rapporto.
Alla luce della percezione che lei ha del mondo americano e dell’interlocuzione con l’Italia, Meloni può essere garanzia euroatlantica anche per aver riequilibrato la postura italiana nel suo tradizionale alveo occidentale, dopo lo sbandamento di Conte verso Pechino?
Il Conte I ha rappresentato il momento in cui, sia sulla Russia sia soprattutto sulla Cina, con il memorandum del marzo 2019 e l’adesione alla cosiddetta Via della Seta, era stato allarmato tutto lo spettro politico americano. Non parliamo solo dell’amministrazione Trump, bensì era un passaggio condiviso sia a destra che a sinistra. Non lo chiamerei neanche riallineamento quello di oggi, perché il ponte era stato fatto già con Draghi: ora è stato rafforzato. Vi è una continuità abbastanza solida tra questo governo e quello precedente. Inoltre, qui negli Stati Uniti, l’evoluzione dei rapporti italiani con il Giappone è vista in maniera estremamente interessante e con una certa curiosità perché, da un lato, si apprezza il fatto che Italia e Giappone hanno rafforzato la partnership portandola a un livello strategico; dall’altro qualche voce critica si era levata non per il progetto in sé, ma perché questa è la prima volta che il Giappone decide di partecipare a un consorzio nel settore della difesa senza il supporto diretto degli americani. Ma non è tutto.
Ovvero?
Coloro che vedono queste dinamiche da un punto di vista più ampio, e non necessariamente solo da quello dell’industria della difesa, considerano questo passaggio rilevante per rafforzare sia la presenza italiana nel mondo pacifico, sia quella giapponese in Europa. In secondo luogo anche per rafforzare due alleati che, storicamente, quando si tratta di questioni militari, per storia, per limiti costituzionali o per una cultura strategica post seconda guerra mondiale, su certe questioni hanno da sempre rappresentato un contrappeso. Per cui rispetto alla Cina questo rafforzamento delle relazioni col Giappone è visto in maniera estremamente positiva. Non dobbiamo dimenticare che, oltre alla guerra in Ucraina e alla risposta euroatlantica guidata dagli americani, per Washington la Cina continua a rappresentare la vera minaccia sistemica. Credo che l’evoluzione delle relazioni con la Cina rappresenterà un altro banco di prova per il governo Meloni rispetto alle relazioni con gli americani. Uno degli elementi caratterizzanti dell’approccio di politica estera del governo Meloni è stato quello di annunciare l’alto grado delle relazioni con il Giappone: ciò contribuisce a fugare qualche timore che poteva esistere.
Ci sarà entro entro la metà dell’anno la visita a Washington dal Presidente Biden del premier Meloni? E tutto il lavoro strutturale, valoriale e politico è finalizzato a strutturare una relazione euroatlantica con gli Stati Uniti, facendo anche sponda con un Paese interessante come la Polonia?
Se devo individuare un ambito in cui la politica estera del governo Meloni presenta qualche criticità è il rapporto con l’Europa. La Polonia è chiaramente un Paese in ascesa e, dal momento in cui è entrata nella Nato e poi nell’Unione europea, ha rappresentato un pilastro per la guerra in Ucraina. La relazione italiana con la Polonia è utile, però l’idea che passa in alcuni circoli della destra italiana che questa relazione sia un modo di controbilanciare francesi e tedeschi, rischia sia di minare la percezione di unità, sia di produrre qualche problema su altre questioni. Mi riferisco alla Francia, con cui noi condividiamo la necessità di un’Unione europea che sia meno austera e più finalizzata a supportare la crescita con politiche espansive: il rafforzamento delle relazioni con la Polonia dovrebbe essere non ideologico ma geopolitico, così da rafforzare l’elemento atlantico all’interno dell’Unione europea. Una delle novità degli ultimi anni è che, se in passato gli Stati Uniti vedevano l’idea di una sicurezza comune in Europa come un qualcosa non da supportare completamente, nell’ultimo periodo c’è un cambiamento da questo punto di vista.
In quale direzione?
Se l’Europa è unita su questioni come la difesa, è più utile.
Su quali criticità invece Roma dovrebbe lavorare?
Se sul bilaterale Usa-Italia non c’è nulla da dire, mentre sul triangolo con l’Europa qualche criticità esiste. Mi riferisco alla presenza nella coalizione di centrodestra di alcuni attori politici, come la Lega, che possono avere un interesse a caldeggiare alcune tematiche per questioni di solidarietà con partiti similari che ci sono in Francia. L’attuale leadership francese di Macron dal punto di vista delle destre sovraniste rappresenta un fronte avverso, perché tecnocrate, centrista, globalista. C’è inoltre un altro versante in cui l’Italia potrebbe lavorare bene: utilizzare le relazioni con la Spagna per creare una sorta di quintetto di testa dell’Unione europea, ora che non ci sono più i britannici, in cui Spagna, Polonia, Italia, Francia e Germania collaborino per avere un’Unione europea che sulla politica internazionale abbia una voce più marcata. Per fare ciò ci deve essere anche uno sviluppo consequenziale rispetto alle dinamiche dell’industria della difesa comune europea.