Nel caso dell’Italia si parla spesso con allarme della dipendenza dalla Cina. Ma non si ha notizia di uno studio completo di quanto profonda sia la sua presenza nei nostri sistemi essenziali sia nel campo dell’elettronica, sia in quelli delle Ict, energia, apparati militari e industrie di base. Il commento di Salvatore Zecchini
Le ultime nuove sul fronte della sicurezza digitale riguardano l’invito della Commissione europea a disinstallare l’apparentemente innocua applicazione TikTok di proprietà cinese dai dispositivi digitali e dai cellulari dei dipendenti per ridurre il rischio d’intrusione delle autorità cinesi nei dati interni.
In effetti, secondo fonti della stessa compagnia, a questi dati hanno accesso alcuni suoi dipendenti per scopi imprecisati. Per gli stessi motivi gli Usa da tempo hanno posto all’indice l’applicazione a seguito di approfondite indagini, al pari di come hanno fatto e continuano a fare per un’ampia gamma di prodotti cinesi nei settori delle tecnologie dell’informazione e comunicazione (Ict).
L’Italia ha assunto finora un atteggiamento più cauto ma non meno attento ai rischi per la sicurezza nazionale, come dimostra la valutazione avviata per l’app TikTok, che potrebbe essere portata all’attenzione del governo per provvedimenti, come ha dichiarato da ultimo il ministro Zangrillo. Questa misura è adottata anche da diversi paesi della Nato e si inserisce in un’ormai lunga serie di limitazioni all’impiego di prodotti cinesi e all’export verso la Cina in campi di particolare delicatezza per la sicurezza nazionale, quali il digitale.
Le restrizioni al commercio internazionale non sono una novità, né toccano solo la principale economia asiatica. Da due decenni vi si è fatto ricorso sempre più frequentemente verso paesi giudicati in rapporti non amichevoli, oppure ritenuti concorrenti sleali nel commercio internazionale. A loro vanno aggiunte le sanzioni economiche e commerciali verso Paesi ostili, come nel caso dell’Iran e della Russia dopo l’invasione della Crimea, col risultato di produrre una riconfigurazione delle correnti commerciali a livello globale.
A rendere più urgenti le limitazioni per la cybersecurity è attualmente l’aumento esponenziale degli attacchi informatici a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina, come documentato dall’ultimo rapporto dell’Enisa, l’agenzia competente dell’Ue. Le restrizioni al commercio internazionale nel settore digitale, tuttavia, sono state poste da un gran numero di paesi, incluse la Cina, l’Ue e le cosiddette economie emergenti. In un rapporto del 2019 del centro studi Ecipe si calcola che la Cina sia il paese più restrittivo, seguito da Russia, India, Indonesia e Vietnam.
In questa stima si valutano più di un centinaio di aspetti relativi agli scambi nell’ambito dell’Ict, comprendendo dazi e ostacoli all’accesso ai mercati nazionali, restrizioni agli investimenti esteri, alla concorrenza e al trasferimento di dati, ed impedimenti agli scambi commerciali. In Europa, Francia e Germania sono i paesi dalle restrizioni più severe, mentre quelle americane risultano meno penalizzanti, pur collocandosi appena al di sopra della media dei 64 paesi più rilevanti.
In Italia il grado di restrizione risulta meno intenso rispetto alle maggiori economie europee, Francia e Germania in particolare, con differenze importanti a seconda dell’ambito sottoposto a limitazioni e delle modalità delle barriere. Quelle più severe sono applicate al trasferimento di dati e all’accesso ai contenuti, e con una forza di poco inferiore, quelle sotto forma di dazi, tariffe e tributi. Altrettanta severità viene applicata in Italia nell’imporre limitazioni quantitative, oppure bandi all’import e all’export di prodotti relativi alle ICT, come nel caso cinese attuale.
Comparativamente meno stringenti sono le misure sugli investimenti esteri, i diritti di proprietà intellettuale e la concorrenza di mercato, unica categoria in cui il Paese mostra un approccio molto meno restrittivo rispetto alla media europea. Nondimeno, va considerato che dal 2012 lo Stato ha fatto un uso crescente del “golden power”, ovvero il diritto che ha di intervenire nei cambi di proprietà di aziende giudicate troppo importanti per lasciare pieno spazio alla libertà di mercato. L’esercizio di questo diritto, proprio per la sua imprevedibilità e variabilità di contenuto, non si riflette adeguatamente nella costruzione degli indicatori sulla restrittività.
Non tutte le barriere rispondono a esigenze di difesa nazionale, o di cybersecurity, o di contrasto alla concorrenza, o di guerra economico-commerciale, come per le sanzioni alla Russia. In buona parte riflettono motivazioni protezionistiche di natura commerciale, oppure decisioni strategiche di sviluppo di un’industria nazionale per fare da traino allo sviluppo di tecnologie abilitanti, oppure politiche di contrasto alla dominanza di fornitori stranieri. Nel contesto attuale di ripetuti shock sistemici prodotti prima dalla pandemia e di seguito dall’aggressione russa all’Ucraina, si è andato affermando l’obiettivo di ridurre la dipendenza da importazioni da paesi ritenuti meno affidabili e in contropartita accrescere il grado di autosufficienza nel soddisfare la domanda interna.
La priorità attribuita a questo obiettivo ha fatto passare in sordina le conseguenze di queste scelte sullo sviluppo economico dei paesi. Porre ostacoli al libero scambio su mercati transnazionali equamente concorrenziali implica allontanarsi dal principio di ricercare un impiego efficiente delle risorse di un paese secondo il criterio dei vantaggi comparati. Il famoso economista inglese, Ricardo, fu il primo che definì la legge dei vantaggi comparati come canone principale di specializzazione efficiente di un generico paese.
Portare all’interno produzioni che si potrebbe ottenere a condizioni più convenienti attingendo al paese più efficiente ha un costo notevole per la comunità nazionale, in quanto distoglie risorse da impieghi più produttivi. In altri termini, inciderebbe negativamente sul potenziale di crescita economica negli anni futuri.
Questo svantaggio potrebbe essere mitigato dal mettere il Paese al riparo da discontinuità nell’approvvigionamento dall’estero, se non da ricatti da Paesi fornitori dominanti, quale è stata la Russia fino al 2022 nel campo dell’energia fossile. Potrebbe anche servire a proteggersi dal dumping di imprese estere o da loro tattiche predatorie per catturare mercati esteri. Un’altra motivazione sarebbe il voler porre le basi di un autonomo avanzamento tecnologico, che nel tempo permetta alle imprese nazionali di affermarsi nella concorrenza internazionale, come avvenuto con lo sviluppo di Airbus e Ariane Space.
Resta, tuttavia, assodato che le misure volte a sostituire un fornitore più conveniente come quello cinese, con uno all’interno meno conveniente comporta un rialzo dei costi degli input e nuove pressioni verso i rincari. In breve, si avrebbe o una spinta all’inflazione, o una minore disciplina di prezzo, ossia un minor freno all’inflazione. Un aspetto meno considerato nel caso dell’import digitale dalla Cina concerne la fattibilità di un’effettiva emancipazione dalla dipendenza cinese nel breve periodo. L’Italia presenta un bilancia negativa nell’interscambio con la Cina di computer, apparecchi elettronici e ottici.
Ne ha importato per ben 9,2 miliardi di euro, ovvero circa due quinti del totale dal mondo, con un disavanzo al netto dell’export corrispondente, di circa 8,6 miliardi, che rappresenta il 20,9% del saldo negativo complessivo (41,07 miliardi). Questi dati che sono riportati nelle statistiche ufficiali non forniscono, tuttavia, un quadro completo della dipendenza del Paese in questo settore, perché non tengono conto dell’interscambio effettivo in termini di valore aggiunto, né diretto, né indiretto. Input cinesi possono, in realtà, essere incorporati in prodotti importati da altri paesi. Ad esempio, le automobili della maggiore compagnia automobilistica tedesca importate in Italia contengono una quota di componentistica digitale cinese. Con il frazionamento dei processi produttivi su scala globale i prodotti delle maggiori economie possono includere quote di valore aggiunto realizzato in paesi diversi da quello di provenienza del prodotto finale.
Secondo i calcoli dell’Ocse, nelle importazioni italiane di computers, elettronica e ottica circa 3 miliardi di dollari costituivano la quota di valore aggiunto proveniente dalla Cina. Un calcolo ancora più raffinato è stato compiuto di recente da due ricercatori giapponesi, S. Inomata e T. Hanaka, che hanno stimato il grado di rischio degli Usa e del Giappone derivante dalla dipendenza dalle forniture cinesi. Il rischio deriva non solo dall’ammontare quantitativo del valore aggiunto importato da un dato paese, ma anche dalla frequenza con cui si ricorre alla manifattura di quel paese, Cina nel caso nostro, nel processo produttivo di un determinato bene o servizio prima di giungere allo stadio finale.
Un problema in una qualsiasi fase produttiva in cui il paese estero è coinvolto può sconvolgere l’intera filiera produttiva, determinare interruzioni di produzioni ed esporre il paese in posizione finale nella filiera al rischio di non poter soddisfare la domanda. Questa condizione si è verificata nel biennio 2021-2022, quando, ad esempio, l’offerta di auto tedesche e di altri paesi si è contratta notevolmente a causa della carenza di componenti elettronici di diversa provenienza asiatica.
La ricerca dei due autori giapponesi mostra che nel settore della difesa americana vi è un’elevata quota di valore aggiunto cinese nelle forniture di apparati Ict da parte della Corea e di Taiwan. In particolare, nella filiera produttiva americana di Ict si rileva un’alta concentrazione di valore aggiunto cinese, che è sottostimata se si guarda solo all’incidenza cinese nel prodotto americano. In tal modo si spiegano le restrizioni introdotte dal governo americano e il suo impegno a convincere i paesi alleati a fare altrettanto.
Generalmente, nelle grandi economie avanzate il rischio da concentrazione in alcuni paesi fornitori è superiore a quanto indicano i dati di valore aggiunto importato. Analogamente, il comparto delle ICT della Corea e di Taiwan è molto più dipendente dalla Cina di quanto non appaia. L’intensità di queste interconnessioni mostra quanto complicato sia attuare nelle democrazie occidentali una strategia di disaccoppiamento dalla Cina dei sistemi produttivi rilevanti per la sicurezza nazionale.
In alcune branche, inoltre, la tecnologia cinese sembra più avanzata di quella degli altri paesi, fattore che spiega perché i prodotti cinesi siano molto diffusi nei sistemi di comunicazione 5G, nei server e nell’edge computing. Districarsi dalla Cina non sembra un compito che si possa svolgere in tempi brevi, né a basso costo, né in assenza di una oculata programmazione. Nel caso dell’Italia si parla spesso con allarme della dipendenza dalla Cina, ma non si ha notizia di uno studio completo di quanto profonda sia la sua presenza nei nostri sistemi essenziali sia nel campo dell’elettronica, sia in quelli delle Ict, energia, apparati militari, ed industrie di base. Servirebbe una ricognizione accurata e dettagliata della sua penetrazione nelle strutture tanto pubbliche che private, prima di definire una strategia. Forse la ricognizione è stata già compiuta e segretata, ma se così non fosse urge affrettarsi a farla, come fondamento di una politica che non sia solo il lanciare finanziamenti a progetti poco produttivi.