La guerra in Ucraina e il presidenzialismo, questi, ad oggi, i due principali tratti distintivi del governo Meloni. Due assi strategici della legislatura che richiedono il consenso delle opposizioni. Il commento di Andrea Cangini
Sono essenzialmente due le bandiere idealmente issate da Giorgia Meloni sui pennoni più alti di Palazzo Chigi: la guerra in Ucraina e il presidenzialismo. Questi, ad oggi, i due principali tratti distintivi del suo governo, questi i due assi strategici della legislatura. Politica estera in tempo di guerra e riforme istituzionali in tempo di crisi di sistema: materie che più di ogni altra richiedono il consenso delle opposizioni.
Sostenere militarmente la resistenza ucraina contro il parere dei due terzi dei cittadini italiani è già piuttosto complicato, farlo senza il consenso delle opposizioni sarebbe impossibile. Cambiare la forma costituzionale di governo a colpi di maggioranza sarebbe lecito (il centrosinistra lo fece con la riforma del Titolo V) ma fortemente sconsigliabile e nient’affatto “legittimante”.
In entrambi i casi si tratta di faccende di Stato. Le faccende di Stato per definizione più “alte”. Per affrontarle con coerenza istituzionale e speranza di successo occorre la postura dello statista.
Più d’un osservatore rimprovera invece a Giorgia Meloni di non essersi in realtà spogliata dei panni di capo partito e di non essersi di conseguenza calata nei panni del presidente del Consiglio. Un presidente del Consiglio in tempo di crisi.
Non per questo si può dire che in Parlamento il centrodestra stia lavorando di fioretto e appaia incline alla mediazione. Le accuse di mafia al Pd alla Camera e il tentato blitz per modificare la legge elettorale per i sindaci dei comuni più grandi al Senato hanno scavato un solco e infuocato il clima tra la maggioranza e le opposizioni, ovviamente ricompattate. E non c’è dubbio che la vittoria di Elly Schlein determinerà un surplus di polarizzazione…
Situazione pessima, dunque, e prospettive fangose. Giorgia Meloni può uscirne solo volando alto e costringendo alleati e avversari a starle dietro. Sta a lei, pur nelle differenze, creare quel clima di responsabilità nazionale propedeutico alla necessaria condivisione della politica estera e della riforma dello Stato. E lei sa bene che per riuscirci dovrà cambiare postura.