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I dieci anni di Papa Francesco e il tempo degli umanesimi

In questo decennio il Santo Padre ha cercato di dimostrare al mondo che i tanti poli che si oppongono nella nostra vita, come globalismo e localismo, patriottismo e universalismo,  non possono essere scelti tagliando fuori l’altro, ma tenuti vivi in noi, in una tensione polare che si risolve a un livello più alto. Riccardo Cristiano fa un bilancio del pontificato di Bergoglio fino a oggi

C’è una frase semplice, efficace, che possa riassumere questo pontificato? Forse sì: potrebbe essere “questa economia uccide”, ma potrebbe essere anche “chi sono io per giudicare?”, come , a pensarci bene se leggiamo alla luce del nostro lungo passato, “il patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin”, o forse “come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”. Ma forse la frasi giusta è nel titolo del libro intervista con Dominique Wolton, “Dio è un poeta”, o più semplicemente il titolo della sua ultima enciclica, “Fratelli tutti”. Ma queste frasi per fare un motto del pontificato non andrebbero unite? Allora, mi sembra che la frase sia il rimando biblico che scelse a Lampedusa,  il suo primo viaggio, “dov’è tuo fratello?”, che tiene tutto insieme e potrebbe portarci a scegliere come frase-motto del pontificato quanto disse al collegio degli scrittori de la Civiltà Cattolica: “Il pensiero rigido non è divino perché Gesù ha assunto la nostra carne che non è rigida se non nel momento della morte”.

Ma ancora non mi sento soddisfatto della mia ricerca perché così procedendo ho l’impressione di cercare un bilancio di questo primo decennio di pontificato di Francesco. Ma lui non è un top manager posto a capo di una multinazionale, anche se la Chiesa cattolica è certamente un’istituzione presente in tutto il mondo. Piuttosto dovremmo trovare qualcosa capace di spiegare lo sbilanciamento che ha promosso per farci uscire dalla comodità anestetizzante del conformismo che nasconde le emergenze sotto il tappeto delle continue invocazioni alla calma. È riuscito a far percepire l’urgenza impellente di sbilanciarsi a chi crede come lui, o crede diversamente da lui, o non crede, o non sa? E quanto?

Se tutte le frasi citate sono certamente folgoranti, taglienti ed efficaci, non riassumono tutto, rimuovono ad esempio il suo decalogo delle malattie curiali (come l’alzheimer spirituale), perché anche i suoi ecclesiastici devono sbilanciarsi, non seguitare a stare ingessati davanti al mondo che si guasta. Lo scrisse meglio di molti altri il poeta irlandese Oliver Goldsmith: “Guasto è il mondo, preda di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula e gli uomini vanno in rovina”. Che parte sceglie dunque il Papa? Per me sceglie chiaramente: non bilanciarsi, ma sbilanciarsi. Ma come, da una parte? Dall’altra? O in avanti? O forse indietro? Indietro certamente no. Ecco, direi che il suo sbilanciamento è in avanti, verso l’altro, gli altri. Ma allora forse sbaglio, più che in avanti lui si sbilancia e ci chiede di sbilanciarci verso l’alto. In che senso?

Questo decennio, per me, ha cercato di dimostrare al mondo che i tanti poli che si oppongono nella nostra vita, come globalismo e localismo, patriottismo e universalismo, individualismo e socialismo, novità e continuità, non possono essere scelti tagliando fuori l’altro, ma tenuti vivi in noi, in una tensione polare che si risolve a un livello più alto, senza però risolvere quella tensione, che resta, deve restare. Il suo pontificato dunque ci ha detto che queste contrapposizioni sono vitali, tensionali dice lui, e i conflitti che generano, le contrapposizioni che determinano, non vanno necessariamente risolte, ma vissute per salire ad un livello nuovo, e poi procedere ancora, e quindi salire ancora. Per questo mi sento di dire che lo slogan che rese celebre la signor Thatcher, “la società non esiste, esiste solo l’individuo” è quanto di più anti-bergogliano possa esistere.

I poli esistono e non si elidono, ma creano energia nella loro contrapposizione necessaria. La spiegazione migliore, concreta, di questa polarità tensionale ce l’ha offerta con il suo discorso sulla globalizzazione poliedrica. La globalizzazione va bene, ma non questa, che ci vuole rendere gli uni uguali agli altri, come i punti di una sfera, tutti equidistanti dal centro. No, occorre una globalizzazione poliedrica, cioè che scelga non la sfera, ma il poliedro, che è uno, ma ha tutti i lati diversi, e quindi unisce ma rispettando le differenze. Altro è il discorso per le contraddizioni, tipo bene-male per capirsi.

Una visione del genere rende ben conto della complessità del mondo. Addio cristianità che parla a tutto il mondo con lo stesso linguaggio, le stesse priorità,  come volesse convincere tutti a indossare le stesse camicie, le stesse cravatte. Questo non va, non può andare. Bisogna vivere nei conflitti, nelle contrapposizioni del mondo, perché il mondo è complesso. Non ci sono guerre sante (“io non credo nelle guerre sante”, ha detto a Paolo Rodari nella sua intervista per la Radio Svizzera e parzialmente anticipata venerdì scorso da La Repubblica) nel mondo complesso e che diviene sempre più complesso perché le vecchie contrapposizioni rimangono mentre nuove ne emergono.

Dunque il motto, la frase simbolo del decennio bersagliano mi sembra che non sia nessuna di quelle indicate, forse sta in tre semplici vocali, che poi sono una vocale sola, ripetuta tre volta: le tre “i” di Francesco. Sono queste: inquietudine, incompletezza, immaginazione.

Ma come, il Pastor Angelicus, come il Papa viene chiamato anche in un noto film, è inquieto? Certo, lo spiega lui stesso che “solo l’inquietudine dà pace”. Se non fossimo inquieti, come saremmo, assuefatti a tutto? Ma poi: proprio il Papa parla di incompletezza, di pensiero incompleto? Non è tutto chiaro, definito, universalmente vero e fisso? Ma no! Ecco cosa disse nel citato discorso ai suoi confratelli de La Civiltà Cattolica: “La crisi è globale, e quindi è necessario rivolgere il nostro sguardo alle convinzioni culturali dominanti e ai criteri tramite i quali le persone ritengono che qualcosa sia buono o cattivo, desiderabile o no.

Solo un pensiero davvero aperto può affrontare la crisi e la comprensione di dove sta andando il mondo, di come si affrontano le crisi più complesse e urgenti, la geopolitica, le sfide dell’economia e la grave crisi umanitaria legata al dramma delle migrazioni, che è il vero nodo politico globale dei nostri giorni”. Era il febbraio 2017, non il giorno del disastro di Cutro. Così, ovviamente, si arriva all’immaginazione, che chi ha un pensiero rigido, ossificato, non può avere: “Per questo mi piace tanto la poesia e, quando mi è possibile, continuo a leggerla. La poesia è piena di metafore. Comprendere le metafore aiuta a rendere il pensiero agile, intuitivo, flessibile, acuto. Chi ha immaginazione non si irrigidisce, ha il senso dell’umorismo, gode sempre della dolcezza della misericordia e della libertà interiore”.

Anche queste tre “i” però non ci conducono in porto, sono tre e noi cerchiamo una chiave, un motto. Questo motto, in base a quanto abbiamo appena citato, sembra stare nella proposta del discernimento. Certo che il discernimento non è rigido, ma come è? Flessibile, va bene, ma per tutti nella stessa identica flessibilità, sempre? Ecco il punto. Francesco, il Papa della complessità, si pone davanti senza pregiudizi, senza ideologismi, proprio perché sa che la complessità è complessa. Dunque se è complessa ci chiede di scegliere di guardarla nella sua complessità. Sì, voglio dire che Francesco è pluralista, e questo pluralismo è il vero motto, ciò che incanta del suo pontificato.

Era ancora arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio, quando scrisse un fantastico libretto sulla visita a Cuba di Papa Giovanni Paolo II. Un paragrafo di quel libretto si intitola “Il pluralismo come riflesso dell’immensità di Dio”.  Dunque Dio è pluralista? Certo, siamo noi, ciascuno di noi, creati a sua immagine, non lui a immagine nostra, per cui tutti dobbiamo diventare uguali. Questo è un fatto straordinario! Esagero? Non esagero. Nel testo del Documento sulla Fratellanza Umana che ha firmato ad Abu Dhabi congiuntamente all’imam di al Azhar, è scritto: “Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani.

Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano”. Questo lo pone agli antipodi di ogni potere sacralizzato, tanto che nel 2003 scrisse: “Una volta che il cristianesimo venne adottato come religione dall’Impero Romano, andò formandosi una ‘teologia ufficiale’ che sosteneva quella realtà politica come se fosse già il Regno di Dio avverato in terra”. Dobbiamo però capire che questo discorso vale anche per la nostra civiltà liberale, perché sebbene tutti dobbiamo auspicare  un mondo in cui ognuno possa sposare solo la persona amata sappiamo anche che le peggiori catastrofi spesso derivano dal perseguimento troppo accanito di ideali in sé auspicabili.

Allo stesso tempo, molti hanno parlato della creazione di Adamo e Eva per dire che sono due, non tre, o quattro, per escludere, discriminare, ma pochissimi hanno notato che sono due perché sono diversi. Ma allora siamo relativisti? Tutto è relativo? Certo che no. Il pluralismo non è relativismo, accetta valori rispettabili, ma nega che ci sia una sola risposta valida ed eterna. Riconosce le diversità, certo, ma il massimo esponente del pluralismo liberale, Isaiah Berlin, ha scritto: “Non sono un relativista; non dico: ‘A me piace il caffè col latte e a te senza; io sono a favore di comportamenti gentili, tu preferisci i campi di concentramento’, e ognuno si tenga i suoi valori, le cui differenze non possono essere superate o integrate”. E Francesco ci dice che le nostre diversità sono, come dire, frammenti dell’immensità di Dio. Ecco perché il capitolo successivo, in quel libro su Giovanni Paolo II a Cuba, definisce il nostro come “il tempo degli umanesimi”. È questo il motto di un pontificato straordinario.



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