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Crisi bancaria? L’instabilità è insita nel sistema. L’analisi di Zecchini

È necessario ammettere che tutti i sistemi bancari hanno un potenziale d’insita instabilità, che deve essere controllata, monitorata e gestita nel senso di minimizzarla anche nella fase patologica dei dissesti al fine di impedirne la diffusione. Non bastano le buone regole, occorre competenza e capacità di vigilare, prevenire ed estinguere gli incendi sul nascere. Conclusione che vale anche per l’Europa. L’analisi di Salvatore Zecchini

Secondo la teoria del caos minime variazioni nelle condizioni iniziali di un sistema dinamico (non lineare) altrimenti prevedibile possono generare grandi, crescenti ed imprevedibili cambiamenti nel comportamento del sistema. In altri termini, vi è sempre spazio per effetti caotici imprevedibili anche in un sistema ben definito.

Questa teoria sembra prestarsi a dare una spiegazione della crisi bancaria in corso con le necessarie approssimazioni derivanti dalla traslazione dal mondo della fisica a quello finanziario. A un’accidentale fuga di un virus da un laboratorio di ricerca tre anni fa è seguita un’incredibile sequenza di eventi: una pandemia globale, la recessione economica, l’inondazione di liquidità da parte delle banche centrali e la dilatazione dei disavanzi pubblici, le fiammate di inflazione, la scalata dei corsi sui mercati azionari e dell’energia, la reazione riequilibrante volta a prosciugare l’eccesso di liquidità e dei disavanzi, e da ultimo gli squilibri nei bilanci delle banche e la corsa agli sportelli.

Fino a qualche settimana fa si pensava a qualche isolato caso di dissesto bancario, contenibile secondo le ordinarie procedure di vigilanza bancaria e risoluzione tempestiva delle banche insolventi. Prima la chiusura di Silvergate Bank, poi la Silicon Valley Bank, successivamente la chiusura d’autorità della Signature Bank e ancora il salvataggio della First Republic Bank e da ultimo la vendita-salvataggio di Credit Suisse, che peraltro era in difficoltà da anni, con l’azzeramento del valore dei suoi bond, di fatto un bail-in dei creditori obbligazionari. Inizialmente si pensava a un isolato caso riguardante una media banca regionale e dalle conseguenze contenibili. Poi uno stillicidio di altri casi di banche piccole e grandi, che hanno indotto le autorità a reazioni di emergenza per limitare la diffusione delle tensioni e prevenire una più grande instabilità del sistema finanziario. Quindi nuove immissioni di liquidità, garanzie a tutti i piccoli depositanti e valutazione al nominale dei titoli pubblici dati in garanzia alla Fed.

La successione di questi eventi in un breve spazio temporale ha innescato brusche reazioni di quasi panico tra gli investitori, che si sono manifestate nel crollo dei titoli delle banche sui principali mercati, senza riguardo alle effettive condizioni di ciascuna banca e all’efficacia dell’azione di prevenzione e vigilanza delle rispettive autorità nazionali. La volatilità dei mercati finanziari si è trasmessa a quella dei titoli di Stato, che in qualche misura hanno visto un apprezzamento dei loro corsi (leggasi, riduzione dei tassi d’interesse). Di fronte a tanta instabilità, alla corsa agli sportelli e alla fuga degli investitori dai titoli bancari sorgono spontanei diversi interrogativi, anche tra i comuni cittadini non addetti ai lavori.

È stato affermato ripetutamente e diffusamente dalle autorità che dopo la grande crisi finanziaria del 2008-2009 i sistemi bancari erano stati rafforzati con norme più rigorose, i sistemi di vigilanza prudenziale resi più pervasivi, e i presidii di patrimonializzazione e liquidità resi sicuri. Si era quindi ridotta la probabilità di un ripetersi di quel tipo di crisi. Ebbene, come mai a quattordici anni di distanza bisogna affrontare una nuova crisi bancaria di ampia portata?

Questa crisi era prevedibile? La governance del sistema è adeguata al compito o mostra di non esserla? Occorrono norme più rigorose e vigilanza ancor più pervasiva? Oppure, bisogna mettere in conto che il sistema bancario è intrinsecamente prono all’instabilità? Le informazioni finora a disposizione non permettono di dare una risposta definitiva ai quesiti, né di affermare che la crisi è ormai superata, ma alcuni punti fermi appaiono sin d’ora chiari e vanno messi in luce.

Innanzitutto, le banche cadute in dissesto non sono del tutto omogenee né nel loro profilo finanziario, né in dimensione e gestione. La SVB è un modello di attività bancaria particolare, ha dimensioni medie ($51 miliardi di assets), opera su uno specifico territorio ed è specializzata nel finanziamento esclusivo di un comparto di imprese ad alto contenuto innovativo e quindi ad alto rischio. Credit Suisse (CS) è una banca classificabile come troppo grande per essere lasciata fallire (circa $494 miliardi di assets nel 2022) e quindi da sottoporre a particolare sorveglianza e soggetta alle più stringenti norme di patrimonializzazione previste dagli accordi Basilea3. Una sua caduta avrebbe avuto ripercussioni sull’intero sistema bancario e finanziario. FRB non è di pari grandezza ($212,6 miliardi al 2022) ma altrettanto importante per le relazioni finanziarie con il resto del sistema e quindi da salvare per la stabilità sistemica. Le altre due banche sono di dimensioni minori e con operatività di portata “regionale”.

La difformità tra queste banche è anche nel modello di business: CS è una banca “universale” con ampio spettro di attività, che aveva accusato importanti perdite in alcuni rami, come l’investment banking, mentre SVB è orientata sul credito alle nascenti imprese in nuovi campi tecnologici e al venture capital, con una raccolta altrettanto concentrata in queste imprese e minore partecipazione dei piccoli depositanti.

Le uniformità si riscontrano, invece, nel contesto macroeconomico in cui il dissesto è avvenuto e nell’essere sottoposte a una vigilanza da parte di autorità di grande competenza ed esperienza e a regole rafforzate nella prevenzione dei dissesti, oltreché nella risoluzione. Avendo poteri di accesso e verifica di ogni informazione sulla condotta interna delle banche, non potevano essere ignare dei primi segnali di squilibrio finanziario in alcune parti del sistema. Secondo i media, anche un grande investitore istituzionale, quale Blackrock, all’inizio del 2022 aveva messo in guardia SVB sulle sue deficienze nella gestione dei rischi. Benché una crisi bancaria non sia prevedibile, vi erano segni di incombenti tensioni in alcuni punti con potenziali effetti di contagio.

Tutto il sistema finanziario, senza distinzione, è esposto al nuovo quadro macroeconomico che è emerso dalla primavera scorsa sia in America che in Europa. Dopo un biennio di credito facile e a buon mercato, il notevole rincaro nel costo del denaro nel giro di dodici mesi tende a mettere in tensione i bilanci aziendali, la raccolta delle banche e i mercati finanziari. In particolare, le banche con un ampio portafoglio di bonds a tasso fisso si trovano con consistenti perdite potenziali in caso di smobilizzi prima della scadenza a causa del rialzo dei tassi. È evidente l’analogia con le condizioni macroeconomiche allo scoppio della crisi del 2008, anche se innescata dalle diffuse insolvenze nei crediti ipotecari. Ma questa volta si ritiene che il sistema finanziario sia più solido, più resiliente e meglio preparato ad assorbire gli shock.

Nondimeno, la diffusione delle voci sulla dubbia solidità di alcune banche è avvenuta molto più rapidamente che nel 2008 per il ruolo sempre più pervasivo dei social media e con altrettanta rapidità i depositanti hanno reagito, spostando i loro fondi e vendendo i titoli delle banche interessate. In questa accelerata successione di eventi si coglie appieno la novità del nuovo mondo in cui le tecnologie ICT hanno proiettato il sistema finanziario, un mondo dominato dai nuovi media. Del loro ruolo le autorità devono tener conto tanto nel rispondere alle crisi potenziali o emergenti, quanto nell’impostare la disciplina bancaria e le regole sulla trasparenza informativa. È un campo che richiede un’approfondita riflessione sui tradeoff tra trasparenza e correttezza dell’informazione in un mondo inondato da fake news dai potenziali effetti destabilizzanti.

Se il sistema di regole e presidii è stato rafforzato, dove vanno ricercate le falle? Inevitabilmente o nell’adeguatezza delle norme, o nel modo in cui sono state applicate nella realtà. È noto che il rafforzamento delle regole avvenuto con l’accordo Basilea3 non è stato recepito nella stessa misura nelle normative nazionali. Negli Stati Uniti durante la presidenza Trump l’applicazione di queste regole, in particolare quelle del Liquidity coverage ratio e Net stable funding ratio, è stata rilassata limitandola alle grandi banche attive sui mercati internazionali, mentre nell’Ue si applicano all’intero sistema. Pertanto, SVB non era tenuta a mantenere questi parametri al di sopra del 100%. Inoltre, le banche medie e piccole erano state esentate dall’applicazione delle norme del Dodd-Frank Act sulla capitalizzazione e sulle altre restrizioni della Volker rule.

La pressione delle banche aveva fatto breccia nei legislatori, disponendo di leve molto forti per condizionare la politica nel loro interesse. Nell’Ue la analoga pressione, pur molto forte, non è arrivata al punto da far allentare il rigore delle regole varate dopo la crisi del 2008. Le banche, pertanto, sono tenute a osservare i parametri del Basilea 3, in particolare i due menzionati, acquisendo di riflesso una resilienza superiore a quelle americane. Il quadro normativo è, tuttavia, lungi dal mettere le banche europee al riparo da crisi, che sono sempre possibili.

Alle falle e imperfezioni nella normativa si sommano quelle nella sua applicazione. Le autorità di vigilanza nazionali e sovranazionali, come nell’Ume, dispongono dei poteri e dei mezzi per monitorare da vicino le condizioni degli istituti di credito e di quelli finanziari e possono acquisire informazioni non disponibili esternamente. Sono in grado di percepire in anticipo i sintomi delle incombenti difficoltà che gravano su singoli istituti, specialmente nell’attuale fase di restrizione monetaria, e sono in grado di richiedere azioni correttive allo stadio iniziale delle difficoltà e di sorvegliarne l’esecuzione. Nei casi della CS ed SVB la crisi era prevedibile da tempo e misure preventive potevano essere adottate in tempo. Dispongono, altresì, di alcuni strumenti per rendere cogenti le correzioni da apportare in anticipo, pena la chiusura dell’istituto, ma il loro strumentario non è né completo, né efficace in ogni caso. Per esempio, nel nostro Paese, negli anni passati è stata negata all’autorità di vigilanza bancaria la facoltà di dismettere il management di una banca nel caso in cui fossero rilevate significative violazioni di norme e deficienze nella gestione. Bisogna giungere allo stadio estremo delle difficoltà per innescare simili provvedimenti a certe condizioni.

Non si può, quindi, escludere che vi siano state falle o carenze di efficacia nell’attività di vigilanza prudenziale dei due Paesi. Per gli Usa una risposta si avrà il prossimo primo maggio, quando saranno resi pubblici i risultati dell’indagine interna avviata immediatamente dal presidente della Fed sulla vigilanza attuata dalla Fed di San Francisco sulla SVB. Per la Svizzera resta una coltre di riservatezza sulle condizioni che hanno condotto al bisogno di salvare nella sostanza il CS.

Il ripetersi di crisi e di conseguenti contagi ripropone l’interrogativo se il sistema bancario è intrinsecamente instabile per la natura stessa delle sue attività. Per avere una banca con il massimo grado di sicurezza è necessario che vi sia una completa corrispondenza tra il profilo di rischio del suo attivo e quello del suo passivo. In dettaglio, in ogni periodo alle passività a breve deve corrispondere un equivalente ammontare di attività a breve o prontamente liquidabili senza perdite e così via per le scadenze e i profili di rischio delle altre poste di bilancio. Inoltre, i costi di gestione e la remunerazione del capitale proprio devono trovare piena copertura nei margini di intermediazione. In queste condizioni, il rischio di dissesto è ridotto al minimo, benché esista sempre quello di insolvenza delle controparti, private o pubbliche che siano, delle poste attive. Una simile banca “più che sicura” non esiste perché questo modello di gestione non è conveniente.

In termini semplificati, l’essenza dell’attività bancaria è la trasformazione del rischio e delle scadenze, ovvero rendere compatibile le preferenze dei depositanti in fatto di liquidità e rischio con le esigenze operative e di investimento delle imprese o degli individui prenditori del credito. In questo quadro sono di cruciale importanza sia l’attenta ed oculata gestione della liquidità da parte della banca, sia l’efficacia della banca centrale nel farla rispettare mettendo a disposizione la possibilità di fornire liquidità agli istituti carenti sempre a condizioni onerose. Il buon funzionamento di questo schema dipende dall’azione coerente dei tre principali soggetti coinvolti: le banche, quella centrale e il soggetto pubblico in quanto detentore del potere normativo. Gli ultimi due soggetti hanno anche il compito della gestione macroeconomica dell’economia, che condiziona il comportamento delle banche con conseguenze per le imprese.

Nel caso di dissesti e di crisi di sistema il ripristino della stabilità impone l’intervento delle due autorità con costi rilevanti, che nella seconda metà del secolo scorso restavano a carico del contribuente o della collettività. In contrasto, dall’ultima crisi del 2008 i costi venivano fatti ricadere sugli investitori e su alcune categorie di creditori delle banche. Questo assetto era codificato nei principi regolatori, ma nella crisi attuale sembra che ci si sia allontanati in parte dalle regole. Nella realtà attuale, infatti, il governo americano ha garantito tutti i depositanti e la Fed è disposta a dare credito contro titoli “sicuri” misurati a valore nominale e non al livello di mercato, già diminuito per l’ascesa dei tassi.

In conclusione, dobbiamo ammettere che tutti i sistemi bancari hanno un potenziale d’insita instabilità, che deve essere controllata, monitorata e gestita nel senso di minimizzarla anche nella fase patologica dei dissesti al fine di impedirne la diffusione. Non bastano le buone regole, perché occorre competenza e capacità di vigilare, prevenire ed estinguere gli incendi sul nascere. Questa conclusione vale anche per l’Europa. Per il nostro Paese va ricordato che a fine 2022 il 24,9% del debito pubblico è detenuto dalle banche, per la quasi totalità è a tasso fisso, la sua durata media ha raggiunto 7,6 anni e il loro valore di mercato si è in parte deprezzato a seguito del rialzo dei tassi e lo sarà ancor più con l’avanzare della restrizione monetaria. In termini espliciti, i detentori sono soggetti a potenziali perdite in conto capitale se dovessero liquidare i titoli prima della scadenza, perdite analoghe a quelle subite dalla Bce lo scorso anno per 1,8 miliardi sui titoli in portafoglio, sia in euro, sia in dollari.

 

 

 



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