Il Giovedì Santo del 2013 papa Francesco si recò proprio a Casal del Marmo, il carcere minorile romano. E come allora per la presenza di minori il rito sarà in forma ristretta, non aperto al pubblico. La stessa cosa dunque? No. La popolazione carceraria cambia, resta l’apertura, l’andare incontro, la ricerca. La Chiesa in uscita, non chiusa, ma aperta e attenta alla realtà del mondo. La riflessione di Riccardo Cristiano
La settimana santa comincia con i riti del Giovedì Santo, prima la messa del crisma e poi il ricordo dell’ultima cena, la famosa “lavanda dei piedi”. È stata una delle prime novità che hanno presentato il volto della Chiesa in uscita di Francesco, eletto un paio di settimane prima della Pasqua del 2013. Da allora infatti è diventata consuetudine che il papa si rechi in qualche penitenziario, o centro di accoglienza per rifugiati, assillanti, o altri luoghi simili. Sino ad allora la tradizione prevedeva una solenne cerimonia in San Pietro, dove di volta in volta venivano invitati 12 persone, di diverse estrazioni e provenienze. Comunque lì. Il risultato cambia? Sì, cambia: la Chiesa in uscita non viene visitata, raggiunta, ma va a cercare l’umanità, nelle periferie della vita e dell’esistenza umana. In uscita, appunto. Se ci si pensa bene questa novità appare dovuta, visto che Gesù era in moto perpetuo, sempre per le sue strade del tempo.
Anche quest’anno Francesco esce dal Vaticano in occasione del Giovedì Santo. Domani si recherà a Casal del Marmo. In un certo senso è un nuovo inizio, visto che la prima volta, il Giovedì Santo del 2013, Francesco si recò proprio a Casal del Marmo, il carcere minorile romano. E come allora per la presenza di minori il rito sarà in forma ristretta, non aperto al pubblico. La stessa cosa dunque? No. La popolazione carceraria cambia, resta l’apertura, l’andare incontro, la ricerca. La Chiesa in uscita insomma, non chiusa in se stessa, ma aperta e attenta alla realtà del mondo.
C’è un significato profondo in tutto questo, che il professor Daniele Menozzi ha ben colto in un suo recente libro, “Il papato di Francesco in prospettiva storica” (Morcelliana, Brescia 2023) e che padre Lorenzo Prezzi ha riassunto così parlandone su Settimananews: “Il cambiamento più significativo prodotto da papa Bergoglio è legato all’evangelizzazione, a come la Chiesa si rapporta alla storia contemporanea. I punti decisivi di riferimento non sono tanto il deposito dottrinale e la legge naturale, intesa come patrimonio valoriale comune interpretato dalla Chiesa, quanto piuttosto la fonte evangelica e l’attenzione ai ‘segni dei tempi’, agli elementi della vicenda storica che mostrano un bene morale coerente con il Vangelo. Nel primo caso, si tratta di adattare la dottrina alle nuove sfide; nel secondo caso, si parte dalle sfide interpellando il Vangelo e modellando coerentemente insegnamento e prassi. Ambedue sono vie che trovano radici nei testi conciliari, ma la prima (il riferimento è a Maritain) è stata quella prevalente nel magistero papale e coerentemente sostenuta sia da Giovanni Paolo II come da papa Ratzinger, in un crescente divario con la cultura civile, almeno occidentale. La seconda è altrettanto legata alla tradizione, ma privilegiando il Vangelo colloca il tema etico in un ruolo secondo, ma non secondario. È più importante la coerenza con il Vangelo e il suo messaggio di misericordia, rispetto ai ‘valori non negoziabili’, alle richieste ultimative ai legislatori. Nel primo caso, la Chiesa rimane “altra” rispetto al mondo. Nel secondo caso, la Chiesa, anche se ferita e minoritaria, partecipa col suo patrimonio evangelico alla comune ricerca dei popoli e delle società”. A me sembra una sintesi perfetta di una differenza, non di una contraddizione. Una differenza che interpreta i bisogni, forse Ratzinger avrebbe parlato dei modi di essere “minoranza creativa”.
Pe dirla in altri termini: la questione del riconoscimento delle radici cristiane europee Francesco la pone non come richiesta ma come azione quotidiana. E proprio per questa urgenza di porle testimoniandole che cerca prioritariamente nel Vangelo il modo per riuscire a interpretare questi “segni dei tempi” piuttosto che proclamando la dottrina davanti alle sfide dell’oggi. Certo, le due opzioni non si contraddicono, ma spicca oggi l’urgenza di uscire, di andare incontro a un mondo che personalmente più che secolarizzato avverto come fratturato, scosso, impaurito, polarizzato e quindi nella necessità di riscoprire soprattutto la misericordia che nega ma infondo desidera.
Vorrei così fare un esempio. Nel 2014 Francesco si è recato in un centro per il recupero di persone non autosufficienti, nel 2015 al carcere romano di Rebibbia, nel 2016 al Cara (Centro Accoglienza per Richiedenti Asilo), poi in altre case circondariali non distanti da Roma. Il primato delle carceri, o meglio dell’attenzione per i carcerati, è evidente, non separabile da quella per i rifugiati altrettanto nota, come da quella per i malati e i disabili. Così oggi mi chiedo: una sola di queste azioni rinnovata oggi non ci avrebbe parlato di oggi in modo nuovo e quanto allora? E non lo avrebbe fatto anche interpretando nuove emergenze? Andando a un centro per richiedono asilo avrebbe toccato una corda caldissima della realtà italiana ed europea, dopo Cutro e mentre un barcone con 500 disperati a bordo cerca il modo di essere soccorso tra onde alte metri.
A Casal del Marmo oggi Francesco trova minori, bambini, mentre l’Italia esce da una discussione concentrata non tanto su di loro ma su come vengono al mondo. Ecco, raramente ho sentito una vera vicinanza con questa dimensione che fa della “vicinanza” il suo tratto caratteristico. Allargando il discorso direi che proprio la vicinanza non può piacere a chi ha bisogno di un papa algido, “distante”, come ha detto con precisione e acume il professor Massimo Borghesi in questi giorni a Madrid. Come se questa lontananza da noi ne confermasse l’essenza altra, vicina sì, ma al trono celeste. Francesco invece è un “papa figlio del Concilio Vaticano II”: non vuol dire ideologicamente di qua o di là, ma immerso nella storia, nella realtà umana di oggi, che trova negli occhi dell’umanità che lo circonda la sua parola. Così acquisisce un senso profondo, rileggendo l’elenco delle visite del Giovedì Santo di Francesco, il gran numero di quelle ai carcerati. Cioè ai rimossi, per i quali stenta a prendere piede un vera intenzione di reinserimento, di recupero, magari con giustizia riparativa più che retributiva.
Questo Giovedì Santo apre il secondo decennio, con buona pace degli araldi di una storia ormai giunta ai titoli di coda, nella ovvia consapevolezza che il tempo passa, ma che non per questo non ha nuove conseguenze da portarci. Le conseguenze invece sono sotto i nostri occhi: la Chiesa in uscita, almeno dall’alto, è percepita come realtà, come vero ospedale da campo, nonostante tante impostazione diverse che sotto permangono, ma che potranno ridursi quando la sinodalità entrerà nella vita della nuova storia ecclesiale.