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Cosa non funziona della riforma Cartabia. Le sfide per politica e giustizia

La procedibilità a querela di alcuni reati ha creato una sensazione di paura, sfiducia e fragilità nei cittadini. Non possiamo accettare che una serie di illeciti siano considerati una partita persa. Bisogna massimizzare l’impatto dei fondi del Pnrr e guidare il processo penale verso la digitalizzazione. Ecco i temi emersi durante l’incontro organizzato da Formiche al Senato, con il viceministro alla Giustizia Sisto e un folto parterre di esperti

“Stiamo ragionando su come dovranno essere i decreti attuativi e i disegni di legge per apportare i correttivi necessari alla riforma Cartabia. Per i cittadini serve chiarezza”. Non è un impegno banale, anche perché la deadline è la fine di quest’anno. Sia il presidente della Commissione giustizia alla Camera, Ciro Maschio, che il viceministro Francesco Paolo Sisto hanno assunto questo impegno.

L’occasione è il convegno “Riforma Cartabia, obiettivi del Pnrr e sicurezza”, organizzato da Formiche in collaborazione con Gentili e con il patrocinio del Senato, del ministero della Cultura e della fondazione Einaudi, che si è tenuto ieri nella sala Zuccari di palazzo Giustiniani, moderato da Maria Antonietta Spadorcia, vicedirettrice del TG2, Rai.

Dal governo arrivano rassicurazioni su un “lavoro costante” per apportare migliorie alla riforma voluta dal precedente esecutivo che “contiene alcune modifiche importanti e che colgono la direzione giusta” ma al contempo necessita di alcuni interventi. Il punto centrale è quello di “rispettare gli impegni presi con l’Unione europea” sul versante delle risorse Pnrr evitando che “si trasformino in un’occasione mancata”. Sul piano più tecnico, dicono Sisto e Maschio, “la depenalizzazione non può essere l’unica soluzione per ottemperare a certi obiettivi anche perché sennò si indebolisce la certezza della pena”. D’altra parte “non possiamo neanche accettare il pan-penalismo”.

“Come le formiche – ha detto il viceministro Sisto – noi dobbiamo lavorare lentamente e pazientemente per una nuova riforma che possa consentire l’avvicinamento della Costituzione ai cittadini e dei cittadini alla Costituzione. Il Pnrr è stato un pretesto, uno stato di necessità per scrivere delle riforme buone, che possono essere migliorate, possono essere adeguate, ma sono riforme che cambiano il volto di un sistema”.

Ora, però, riconosce Sisto, “c’è il problema di dare attuazione a questi principi: molte deleghe vanno spiegate, ma noi siamo pronti e con l’ufficio del ministero stiamo lavorando perché si possa fare in tempo, si possano dare all’Europa quelle risposte che sono indispensabili per usufruire dei fondi Pnrr”. Sisto ha parlato poi di “una rivoluzione copernicana” riferendosi all’istituzione dell’Ufficio del processo. “Il giudice non è più un solista – chiude – , ma il direttore di una piccola orchestra. Grazie a questa struttura abbiamo già avuto una riduzione del 18% dei tempi processuali”.

Se è vero che uno dei punti principali del Pnrr è legato alla velocizzazione della giustizia, è altrettanto vero che questa accelerazione “non si deve tradurre in un abbandono dei cittadini al loro destino”. È il richiamo di Bartolomeo Romano, professore ordinario di Diritto penale dell’Università di Palermo e consigliere giuridico del ministro della Giustizia. In linea di massima “depenalizzare va bene, ma è qualcosa che occorre fare con estrema cautela”. Soprattutto perché va evitato che “la sfiducia dei cittadini verso lo Stato cresca”. Al ministero, nel solco della linea Nordio, è in atto un “intervento chirurgico sui reati di abuso d’ufficio e traffico d’influenze”. Ma – e questo è un tema scottante – “siamo disposti ad accettare che alcuni reati, tipo il furto o il sequestro di persona, diventino procedibili a querela?”, si chiede il docente.

Per la verità questo è stato il quesito più ricorrente. Il baricentro della discussione si sposta sulla reale capacità della struttura del sistema giudiziario di gestire tutta la mole di processi che si incardinano quotidianamente nelle procure. In questa chiave, secondo Guido Alleva, fondatore dello studio legale Alleva e Associati, va letta “la proposta di riforma fatta dal legislatore”. Il punto è che con “l’estensione della platea di reati perseguibili a querela di parte, si sta arrivando a una sorta di privatizzazione dell’azione punitiva”. La questione sulla quale interrogarsi resta quella legata “agli aspetti riparativi della giustizia penale”.

Il grande incremento di personale assunto con contratto a termine negli uffici giudiziari grazie al Pnrr non è certo risolutivo. Anzi. La carenza di personale resta un deficit pesante nell’ambito dello svolgimento dei processi e di tutte le fasi precedenti. L’esiguità degli organici è grave a tal punto, in certi contesti, dal mettere in discussione “la tutela stessa dei diritti”. Lo dice Ida Teresi, sostituto procuratore – Sezione I Procura della Repubblica, Tribunale di Napoli. Si badi: “La magistratura italiana – dice la pm – accetta la sfida della modernizzazione, della digitalizzazione, ma deve poter contare su risorse umane e materiali adeguate”.

Sul merito della riforma, Teresi ammette che il testo “contiene obiettivi auspicabili”, ma non certo sul versante del micro crimine. Qui torna il nodo dell’estensione della procedibilità a querela per alcuni reati. “La riforma Cartabia – dice la pubblico ministero – oltre ad anestetizzare il micro-crimine, introduce un maggiore carico di adempimenti per i pm. Peraltro sono stati introdotti una serie di interlocuzioni inutili che, senza personale adeguato, rallentano ulteriormente il processo”.

Lungaggini, adempimenti, procedure farraginose. Tutte componenti che portano il nostro Paese a essere “maglia nera in Europa come durata dei procedimenti penali: basti pensare che l’appello dura dieci volte tanto rispetto alla media Ue”. A ricordarlo è Gianluigi Gatta, professore di diritto penale all’Università degli Studi di Milano. “I processi durano tanto perché sono troppi e perché esistono troppe fattispecie. Dunque occorre depenalizzare tutti i reati che incidono maggiormente sulla prassi”. L’auspicio del docente è che si continui a “tenere alta l’attenzione sui tempi del processo perché ce lo chiede l’Europa e la Costituzione”, e perché il Pnrr in questo senso “rappresenta una grande opportunità”. Il punto di partenza deve essere, in questo senso, la “digitalizzazione della giustizia, a partire dal processo penale che è ancora esclusivamente cartaceo”.

Dello stesso avviso è anche l’avvocato Mafredi Landi di Chiavenna che ritiene la tematica della “digitalizzazione del processo penale un punto chiave”. Non c’è dubbio, secondo il legale, che il Pnrr rappresenti “un’occasione straordinaria” anche se auspica che parte dei fondi possano essere investiti anche per “portare avanti alcune assunzioni tra le forze dell’Ordine, che svolgono un lavoro straordinario”.

A questo punto il focus si sposta sulla percezione della sicurezza da parte dei cittadini. Su questo, in relazione alla depenalizzazione di alcune fattispecie, Landi di Chiavenna si chiede se in effetti “lo Stato abbia reale interesse a perseguire certi tipi di reati”. L’esempio più ricorrente di micro-criminalità è quello dei ladri di biciclette, ma più in generale a una serie di episodi che a cadenza oraria si verificano in particolare nelle grandi città.

“Secondo l’ultimo rapporto del Censis i reati sono drasticamente calati negli ultimi dieci anni. Ma siamo sicuri che tutti denuncino?”. È il quesito da cui parte Andrea Cangini, segretario generale della Fondazione Einaudi. Non c’è dubbio, però, che “molti italiani abbiano timore di essere vittima di reati”. Ed ecco l’errore della politica: “Un po’ per superficialità, per ovviare a questi timori delle persone, introduce nuove figure di reato. Un’operazione del tutto insensata”. Anche perché sulla micro-criminalità, per lo più “a opera di immigrati giovanissimi” non si risolve certo introducendo più reati, bensì “con il controllo capillare del territorio”.

Ebbene, nonostante la direzione della depenalizzazione sia sostanzialmente condivisa da tutti, il richiamo del direttore editoriale di Formiche, Roberto Arditti è che “non possiamo accettare l’idea che una serie di reati li si debba considerare come una partita persa”. La vera svolta sarebbe quella di trovare un modo “civile e democratico di sanzione che regoli i rapporti tra le due comunità: quella delle persone perbene (la stragrande maggioranza) e quella composta da persone che la legge la infrangono”.

In senso stretto, sulla riforma Cartabia, Arditti ha un pensiero molto chiaro: “Riforme come questa – dice – sono fatte nel tentativo di porre rimedio a storture di cui tutti lamentiamo l’esistenza. In tal senso, aiuterebbe un atteggiamento costruttivo. Non consideriamo nemmeno per un momento questioni relative ai procedimenti penali come un faticoso appesantimento che appassiona solo gli amanti del diritto, perché stiamo parlando del cuore centrale di un sistema libero e democratico. Se noi mettiamo in discussione questo compromettiamo tutto”.

Il punto di sintesi è quello di Giorgio Altieri, partner, Tonucci & Partners. “La Riforma Cartabia ha avuto tra i suoi obiettivi quello di ridurre il sovraccarico giudiziario e ricondurre l’intervento penale a extrema ratio, anche se non tutti gli interventi sembrano risolversi in questa direzione. Alcuni fatti di cronaca hanno fatto emergere fin da subito delle problematiche, ad esempio, il mancato arresto in flagranza per i furti per l’impossibilità immediata di querela da parte della persona offesa. Su questa criticità si sta intervenendo con un nuovo disegno di legge, che tuttavia anch’esso apre il dibattito laddove consente per 48 ore l’arresto in mancanza di querela. Se è senz’altro opportuno ricondurre l’intervento penale ad extrema ratio, è anche vero che occorre, da un lato, non forzare oltremodo i principi cardine del sistema penale e, dall’altro, vanno probabilmente meglio verificati i correttivi”.

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